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Maus, il fumetto di Art Spiegelman sulla Shoah

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Gabriele Lippi

Un'opera dal valore inestimabile, fondamentale per la costruzione e la conservazione di una memoria collettiva, la prima nel suo genere a vincere il Pulitzer. Ecco perché ancora oggi è importante leggere Maus

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La memoria segue percorsi diversi, talvolta tortuosi. Può e deve essere alimentata dai libri di storia ma non può prescindere dalla tradizione orale, dai racconti che passano dai padri ai figli, dai nonni ai nipoti. Art Spiegelman è nato il 15 febbraio del 1948, poco più di tre anni dopo la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa sovietica (LO SPECIALE SUL GIORNO DELLA MEMORIA). Non ha vissuto direttamente il dramma della Shoah ma l’ha assorbito dai ricordi del padre Vladek e della madre Anja, due sopravvissuti al lager, e poco più che ventenne ha sentito il bisogno di raccontare quella storia, di tramandarla con parole e disegni, regalando al mondo una delle opere più potenti che siano mai state pubblicate sul tema.

Il primo fumetto ad aver vinto il Pulitzer

Nella costruzione e nella conservazione della memoria, Maus ha lo stesso peso specifico di Se questo è un uomo di Primo Levi e del Diario di Anna Frank. A differenza delle altre due opere, e di altre ancora fondamentali, è però un fumetto. Non un graphic novel (Spiegelman non ha mai amato la definizione) ma proprio un fumetto uscito in serie, tra il 1980 e il 1991, prima di venire rilegato e diviso in due parti: Mio padre sanguina storia e E qui sono cominciati i miei guai. Maus non è un fumetto qualunque, è il primo ad aver vinto il Pulitzer, un’opera dal valore letterario universalmente riconosciuta, tra le poche capaci di varcare i confini della Nona arte, aprendosi a lettori non abitudinari per i fumetti, imponendosi oggi come uno di quei testi che dovrebbero essere consigliati nelle scuole per una conoscenza più approfondita dello sterminio nazista degli ebrei.

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Un mondo popolato di animali

In Maus, Spiegelman decide di dare ai protagonisti della storia fattezze animali. Gli ebrei sono topi, in un iconico ribaltamento della raffigurazione offensiva che avevano subito in epoca nazista, i tedeschi sono gatti. Al racconto animalesco si aggiungono i cani statunitensi, le libellule zingare, i pesci inglesi, gli alci canadesi, i maiali polacchi. Scelte dal fortissimo valore simbolico e metaforico che comunque hanno portato diverse polemiche intorno all’opera, specialmente in Polonia, e persino a una versione “pirata”, Katz, in cui tutti i personaggi assumano la forma di gatti. 

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I colloqui col padre sopravvissuto

La vicenda prende le mosse dallo stesso bisogno che guidò l’autore agli inizi degli anni ’70, quando dopo la morte della madre per suicidio si avvicinò al padre, con cui i rapporti erano tesi, per chiedergli di raccontargli la sua storia. Nel fumetto avviene lo stesso, Artie interroga Vladek, che comincia a narrare i fatti della sua giovinezza, fino alla deportazione ad Auschwitz e all’esperienza nel lager. Racconta persino di quella volta che, mascherandosi da maiale, provò a farsi passare per polacco per scampare alla persecuzione. Un passaggio di memorie di padre in figlio che genera in Artie una nuova consapevolezza della sua identità, del significato di essere figlio di deportati, del peso che l’esperienza vissuta dai genitori ha sulla sua stessa esistenza. Un tema peraltro già toccato da Spiegelman in Prigioniero sul Pianeta Inferno, opera pubblicata nel 1968 che lo vede aggirarsi per la New York contemporanea indossando una metaforica divisa da carcerato e che viene ripresa e citata nella prima parte di Maus.

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Un tratto sobrio e senza spettacolarizzazioni

Quelle di Maus sono pagine in cui il dolore viene raccontato con delicatezza e sobrietà, senza spettacolarizzarlo in nessun modo, con un’essenzialità del disegno che sembra rispecchiare l’asciuttezza della narrazione. Spiegelman, che nella stessa opera racconta direttamente al lettore i suoi dubbi e le sue paure di non rendere giustizia alla sofferenza degli ebrei, sceglie deliberatamente di non indugiare sulla violenza, lasciando alla profonda umanità che pervade le sue tavole il compito di descrivere i terribili fatti di un’epoca di odio e violenza. Un’opera così complessa che lo stesso Spiegelman, nel 2011, vi è tornato con MetaMaus, un libro che approfondisce l’opera raccontandone la genesi e lo sviluppo, fornendo al lettore le stesse fonti a cui si era rivolto l’autore.

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