Gli attacchi e gli incidenti recenti a cavi e gasdotti nel Baltico e altrove mostrano quanto il “dominio subacqueo” sia vulnerabile e strategico per energia, dati e sicurezza. In questo contesto Fincantieri ha presentato “DEEP”, un sistema integrato di sensori, droni e software pensato per sorvegliare e proteggere infrastrutture sottomarine
Nel mondo reale il “dominio subacqueo” non è un gergo da convegno: è il luogo dove si colpisce senza farsi vedere. Nel settembre 2022 le esplosioni alle condotte Nord Stream nel Baltico hanno reso inutilizzabili tre tubi su quattro e fatto impennare i prezzi del gas in Europa. Nell’ottobre 2023 si è fermato il Balticconnector, il gasdotto tra Finlandia ed Estonia, insieme a un cavo dati: le indagini hanno parlato di “attività esterna”, poi hanno seguito la pista di un’ancora trascinata da una portacontainer cinese; l’intenzionalità resta discussa. Nel 2022 si sono interrotti cavi sottomarini vicino alle Shetland e alle Faroe, e a gennaio, alle Svalbard, è stato tranciato uno dei due collegamenti in fibra con la Norvegia. Nel 2023 due cavi che collegavano le isole di Matsu a Taiwan sono stati tagliati: Taipei ha indicato navi cinesi, Pechino ha parlato di incidenti. Parliamo di un mercato in forte crescita: le stime citate da Fincantieri parlano di circa 50 miliardi di euro l’anno a livello globale, con una “fetta” potenzialmente accessibile per il gruppo di circa 22 miliardi. «Con DEEP abbiamo validato un sistema integrato capace di proteggere le infrastrutture critiche usando le migliori tecnologie disponibili», ha detto Folgiero, rivendicando l’obiettivo di rafforzare sicurezza e autonomia tecnologica del Paese.
Che cos’è, in concreto, DEEP?
È un “sistema di sistemi”: una rete di sensori subacquei per l’allarme preventivo, un centro di comando e controllo che gestisce le operazioni in tempo reale, una squadra di veicoli autonomi per ispezioni, e un livello software che usa l’intelligenza artificiale per analizzare le immagini e riconoscere minacce o anomalie. L’architettura è modulare e scalabile, cioè si adatta a porti, condotte, cavi sottomarini, piattaforme offshore. Il carattere duale è il punto: la stessa tecnologia può servire a proteggere cavi di telecomunicazione e gasdotti come a monitorare habitat marini, mappare i fondali o ispezionare infrastrutture dopo una tempesta.
La missione alla Spezia ha mostrato proprio questo approccio integrato. La barriera di sensori genera l’allerta; i droni subacquei, equipaggiati con sonar e ottiche, entrano in azione per verificare cosa succede sul fondo; il software fonde i dati e restituisce un quadro unico all’operatore, che può decidere se intervenire o automatizzare parte della risposta. L’idea è ridurre tempi, costi e rischi delle operazioni subacquee, aumentando la continuità del servizio: meno immersioni umane, più robotica, più previsione. La piattaforma è predisposta anche ad allargarsi verso la superficie grazie a droni navali senza equipaggio e a sensori anti-drone, così da estendere la sorveglianza oltre la linea d’acqua quando serve.
Le difficoltà
Le sfide non sono certo di poco conto. Primo: il mare è rumoroso. Tra traffico, pesca e fauna, distinguere un intruso da un falso allarme richiede tempo, dati storici e modelli addestrati; l’IA aiuta ma non sostituisce l’analista. Secondo: la latenza. Sott’acqua si comunica male e piano: i collegamenti acustici hanno banda limitata, quindi bisogna portare calcolo “a bordo” dei droni e progettare missioni con molta autonomia. Terzo: la catena logistica. Anche l’asset più sofisticato va lanciato, recuperato, ricaricato e mantenuto in aree spesso infide. Quarto: l’attribuzione. Nei casi citati, tra ancore trascinate, reti, flotte “grigie” e navi di ricerca, spesso si resta nel territorio del “probabile”, non del “provato”.
Il debutto alla Spezia, insomma, è un passo necessario ma non sufficiente. Sotto la superficie, dove un’ancora può valere quanto un’operazione clandestina, la differenza la faranno continuità di sorveglianza, tempi di ripristino e capacità di documentare i fatti. Se l’Italia vuole giocare la partita, servono tecnologie come DEEP, certo, ma anche governance, fondi stabili e piattaforme comuni tra chi costruisce, chi gestisce e chi difende le infrastrutture del mare.