Con l'Antitrust a Google non è andata poi così male

Tra agosto e l’inizio di settembre uno dei contenziosi antitrust più rilevanti degli ultimi anni è arrivato a un punto di svolta: una corte statunitense ha stabilito che Google, nella sua posizione dominante nel mercato delle ricerche online, ha abusato della sua posizione monopolistica. Il giudice Amit Mehta ha scelto di soppesare con prudenza le azioni correttive affidate a Big G, limitandone il perimetro di applicazione a interventi mirati, senza concentrarsi su modifiche strutturali. Le pene più severe proposte dal Dipartimento di Giustizia americano – su tutte, la cessione del browser Chrome o del sistema operativo Android – sono state rigettate dalla giustizia d’oltreoceano. Gli accordi di esclusiva con le terze parti Uno dei nuclei centrali della sentenza ha a che fare con l’eliminazione degli accordi esclusivi con terze parti che finora – e per anni – hanno permesso a Google di essere il servizio di ricerca di default nei dispositivi venduti sul mercato . Mountain View a partire da 60 giorni dopo la sentenza del 2 settembre sarà obbligata a condividere coi concorrenti del settore web search dati che spaziano dall’indice di ricerca alle interazioni degli utenti. L’obiettivo della sentenza è permettere la crescita di alternative finora offuscate da Google Search, come Bing o DuckDuckGo. Voci favorevoli e contrarie C’è chi ha visto nel ruling della corte un dispositivo improntato a un equilibrio ragionevole, che evita conseguenze troppo profonde per il mondo dell’innovazione; altre voci invece si sono levate per criticare la sentenza di Mehta: Gabriel Weinberg, il Ceo del motore di ricerca DuckDuckGo, ha contestato l’efficacia delle misure di riparazione, argomentando che non intaccheranno l’abuso della posizione dominante da parte di Google. Tim Sweeney, amministratore delegato della società di software Epic Games, ha detto alla stampa statunitense che il risultato è de facto una vittoria apparente per l’azienda, dato che potrà proseguire nelle pratiche precedenti «con qualche obbligo minimo». E anche l’associazione News/Media Alliance ha giudicato la decisione «un’occasione persa» di tutelare gli, specie di fronte alle nuove minacce poste in essere dall’intelligenza artificiale. Più in generale, insomma, tra gli addetti ai lavori serpeggia la convinzione che il provvedimento risulti insufficiente a frenare il dominio incontrastato di Google. Google tira un sospiro di sollievo Per la società del Ceo Sundar Pichai, invece, la sentenza permette di tirare un sospiro di sollievo: Google potrà mantenere l’operatività di Chrome e Android, e persino non intaccare in profondità i suoi accordi remunerativi con partner prestigiosi come Apple, che pure ne escono ridimensionati e senza esclusiva; intese che sono fruttate miliardi a Mountain View. Unica nota dolente: l’azienda si è detta preoccupata dalle conseguenze sul piano della privacy derivanti dalla condivisione obbligata dei dati con i competitor commerciali. Il ruolo dell'AI nelle ricerche Negli equilibri in fase di ridefinizione dopo la sentenza, a pesare sempre di più è anzitutto l’ascesa dell’intelligenza artificiale generativa: strumenti come ChatGpt e Perplexity hanno già iniziato a togliere quote di mercato ai motori di ricerca, dando agli utenti risposte dirette e personalizzate senza passare per la cara vecchia pagina con la lista ordinata di link. È in questo scenario che si dovrà misurare la reale efficacia di ciò che è stato imposto a Google: il rischio, infatti, è che i nuovi competitor abbiano il volto di piattaforme basate sull’IA generativa, capaci di conquistare progressivamente l’attenzione degli utenti. Google impugnerà la decisione A livello di iter legislativo, Google ha annunciato di voler impugnare la decisione: una decisione che verosimilmente rallenterà l’effettiva l’entrata in atto delle nuove disposizioni. Intanto il Dipartimento di Giustizia, insieme ai procuratori degli Stati americani coinvolti nel processo, secondo il New York Times sta valutando a sua volta se fermarsi qui o imbastire un appello. Una tappa cruciale nella regolazione antitrust delle grandi piattaforme tech si è conclusa con una vittoria relativa della multinazionale sul banco degli imputati: rimedi come la condivisione di dati e la fine dell’esclusività commerciale difficilmente intaccheranno la posizione dominante di Google, che è riuscito a scamparla senza essere costretto a privarsi di gioielli della corona come Chrome e Android. Il giudice non ha ha nemmeno ritenuto opportuno imporre a Google l’inserimento di uno choice screen che permetta agli utenti di scegliere il loro motore di ricerca di default. Forse la giustizia statunitense punta a riparare il mercato senza sconvolgere i motori dell’economia digitale: ma così facendo si rischia di rendere i correttivi dei pannicelli caldi, e di non spostare di molto lo status quo dell‘era digitale.

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Davide Piacenza