Abiti da lavoro deducibili, in quali casi si possono scaricare le spese? L'analisi
EconomiaIntroduzione
In mancanza di un quadro normativo definito, negli anni diverse sentenze si sono espresse – non sempre in modo uniforme – sulla deducibilità fiscale relativa alle spese sostenute per l’acquisto di vestiti da indossare durante l’attività lavorativa.
Quello che devi sapere
Il concetto di inerenza secondo la Cassazione
Punto di partenza è il concetto di inerenza sul quale si è espressa di recente la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 23095 dell’11 agosto scorso. Secondo l'orientamento della suprema Corte, l’inerenza non include solo la sussistenza di un rapporto causale costo-ricavo ma va inteso anche in via indiretta (potenziale e in proiezione futura) come “costo all’attività d’impresa o professionale complessivamente considerata”. L’interpretazione riapre dunque il dibattito tra chi ritiene che qualunque outfit acquistato per la professione possa essere dedotto dalle tasse e chi, al contrario, opta per un'interpretazione restrittiva.
Per approfondire: La rubrica di Carlo Cottarelli: “Russia-Ucraina, lo stato del conflitto in 7 punti (Cina compresa)”

Interpretazione dell’Agenzia delle Entrate
Tra i soggetti che negli anni hanno adottato un’interpretazione restrittiva c’è l’Agenzia delle Entrate che - riporta il Corriere della Sera - ha ammesso nella sottrazione dall’imponibilità fiscale solo le spese per un vestiario che sia inequivocabilmente obbligatorio secondo norme di legge o regolamenti, sia connesso all’attività e non possa essere utilizzato nella vita privata. Stando a una risoluzione del marzo 2002, l’ente di riscossione ha chiarito che “le spese afferenti l’attività professionale sono infatti quelle sostenute per lo svolgimento di attività o per l’acquisizione di beni da cui derivano compensi che concorrono alla formazione del reddito professionale. È necessario pertanto che sussista una connessione funzionale, anche indiretta, dei costi sostenuti rispetto alla produzione dei compensi che concorrono a formare il reddito di lavoro autonomo”.
Outfit deducibili
In quest’ottica ad essere facilmente deducibili sono per esempio le divise da lavoro come camici sanitari, tute antinfortunistiche, toghe da avvocati e grembiuli da asilo. Mentre più incerta è la collocazione di giacche, tailleur e completi eleganti indossati dai professionisti per definire la propria immagine ma che, per la loro versatilità, potrebbero essere impiegati anche in contesti non lavorativi.
Dimostrare il legame funzionale
Per il contribuente diventa dunque dirimente dimostrare il legame funzionale tra vestiario e impiego nell'attività professionale per la generazione del reddito. Come ricorda Il Sole 24 Ore, il principio è stato ribadito di recente dalla Corte di giustizia tributaria di Brescia chiamata ad esprimersi nei confronti di un imprenditore che aveva dedotto spese per “borse, abbigliamento, accessori e monili”. Essendo tutti oggetti riconducibili all’uso personale, la Corte li ha considerati non deducibili dal reddito d’impresa.
Il caso di artisti e showgirl
Ma cosa accade quando un vestiario applicabile anche in contesti privati compare nero su bianco su un contratto? Nel 2016 una sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano nei confronti degli outfit indossati dalla showgirl Belen Rodriguez aveva ammesso la deducibilità al 50% dal reddito di lavoro autonomo per i costi di abbigliamento utilizzati durante le prestazioni professionali.
Deducibilità dell'outfit solo se prevista nel contratto
Per dimostrare il legame funzionale con la professione serve dunque una clausola apposita inserita nel contratto di collaborazione che impone l’utilizzo di determinati abiti in contesti pubblici.
L’abbigliamento elegante
Per quanto riguarda invece quei professionisti che scelgono un vestiario elegante con l’obiettivo di creare “una buona immagine”, tale criterio viene ritenuto “generico” e quasi sempre insufficiente a validare la deduzione del relativo costo.
La sentenza della Cgt Veneto
Nel 2024, una sentenza della Corte di giustizia tributaria del Vento aveva bocciato il tentativo intrapreso da un promotore finanziario di considerare deducibile il proprio vestiario d’ufficio. “La spese per l'abbigliamento inteso in senso generico e non specifico per lo svolgimento dell'attività, quale ad esempio una toga per un avvocato e/o una tuta per un artigiano, non rientrino in tale disposizione non essendo sufficiente la mera considerazione che anche l'abbigliamento concorra all'immagine del professionista”, si legge nella sentenza.
Sentenza della Cgt Torino
Su casi simili non mancano tuttavia eccezioni come una sentenza della Corte di giustizia tributaria di primo grado di Torino (n. 959/2/24) che ha ritenuto deducibili le spese d’abbigliamento sostenute da un commercialista. Nel giustificare l’effettivo legame funzionale tra vestiario e generazione del reddito di lavoro autonomo, i giudici hanno posto l’accento sulle "importanti cariche" ricoperte dal professionista. In quando proprietario di un noto studio, era stato riconosciuto l’obbligo per il soggetto di “indossare abiti di qualità in occasione degli incontri con i clienti o in occasioni pubbliche, adeguati al decoro che la professione impone”.
L'orientamento della Cassazione
Come ricorda il Sole, nonostante le eccezioni, la Cassazione sembra orientata a lasciare al contribuente il compito di dimostrare l’effettiva inerenza. Spetta in ogni caso all’Agenzia delle Entrate giustificare, in sede di accertamento, le motivazioni che spingono a non riconoscere la deducibilità su tali spese.
Per approfondire: Tasse più alte per i miliardari stranieri in Italia, la proposta del Pd