Dazi e conseguenze per le imprese italiane: ecco perché è il tempo delle scelte

Segnali di distensione, all’orizzonte dello scontro commerciale internazionale seguito alle scelte di Trump, iniziano a comparire. Dai primi accordi con il Regno Unito alla prova di dialogo con la Cina il prossimo weekend, quando in Svizzera - territorio neutrale per eccellenza – si terrà il faccia a faccia tra il segretario al Tesoro Usa Scott Bessent e il vicepremier cinese He Lifeng. I mercati sperano e mostrano un cauto ottimismo. Dovesse andare male seguirà una nuova volatilità, quella fase di movimenti repentini in salita o discesa a cui ormai siamo abituati. Per l’economia reale e per le imprese che la animano però è diverso. Anche di fronte alla prospettiva di un alleggerimento della pressione tariffaria, l’incertezza che le minacce di Washington hanno generato non sarà a costo zero. Non sappiamo ad esempio come andrà realmente a finire la partita dei dazi americani , quando potremo mettere la parola “fine” alla guerra tra Russia e Ucraina, come entrambi questi fattori modificheranno le catene di approvvigionamento di gas e di conseguenza i prezzi energetici. Ecco, di fronte ad una scarsa visibilità nel breve e medio termine le imprese hanno una prima reazione fisiologica: bloccano gli investimenti. Prima di rischiare di perdere soldi, peraltro in un contesto economico di crescita in Italia stimata ampiamente sotto l’1% da tutti i principali enti nazionali e internazionali, si passa alla strategia “wait and see”, aspetta e vedi come va. Questo vale generalmente per tutti gli imprenditori, ma concentriamoci sull’Italia e proviamo a intravedere i prossimi mesi a partire dai dati appena rilasciati da Cerved Rating Agency e contenuti nel “Credit Outlook 2025”. Secondo le previsioni della principale agenzia di rating italiana – elaborate sui dati di 14mila imprese – nei prossimi 12 mesi tornerà a salire la probabilità di default, ossia l’incapacità di una impresa di onorare i propri debiti. Si passa dall’attuale probabilità del 5,3% al 5,5%, in uno scenario base dove sono previsti dazi al 10% sulle merci europee che vengono esportate verso gli Stati Uniti. Non si tratta di un’impennata simile a quella stimata in tempo di Covid e anni post Covid, ma è certamente utile a mettere in guardia gli imprenditori che invece di fermarsi dovrebbero proprio oggi operare scelte tattiche per rispondere ad un contesto in forte evoluzione. Tra le imprese più vulnerabili, secondo l’agenzia di rating, ci sono quelle di piccole e medie dimensioni afferenti a determinati settori, come ad esempio l’automotive e il tessile. Più resilienti saranno invece quelle che negli anni scorsi hanno investito in innovazione e sostenibilità. È più positivo sulla flessibilità e la capacità di reazione delle Pmi italiane il capoeconomista di Intesa Sanpaolo, Gregorio De Felice, che pure resta convinto di un fatto: “Una parte dei dazi introdotti da Trump resterà in vigore. La Commissione europea vuole portare sul tavolo dei negoziati la proposta di acquistare 50 miliardi di beni Usa in più all’anno? Bene, questo potrà convincere Trump a ridurre o annullare i dazi reciproci, ma difficilmente spariranno quelli universali che prevediamo restino al 10%”. Insomma, sarebbe bene non aspettarsi una inversione a U della politica commerciale annunciata da Trump. Resta invece più che plausibile prevedere alleggerimenti e sconti per alcuni Paesi, perché i dazi avranno un effetto boomerang sulla stessa economia statunitense. “Porteranno meno crescita e più inflazione negli Usa, così come ha allertato più volte negli ultimi mesi il governatore della banca centrale americana, Jerome Powell. Quella parte di elettorato che ha votato Trump mostrando scontento per l’operato dei democratici, incapaci di combattere l’inflazione negli anni scorsi, si troverebbe così ad acquistare prodotti con prezzi nettamente più alti: ecco il paradosso”. Conclude così De Felice che, a Sky TG24, sottolinea anche i risultati di un’indagine della Divisione Banca dei Territori del Gruppo Intesa Sanpaolo condotta su una platea di 400mila imprese. Se questo è davvero il tempo delle scelte, invece di fermare gli investimenti cosa sono pronti a fare gli imprenditori italiani? Cercare nuovi mercati di sbocco e valutare la possibilità di aprire filiali o insediarsi negli Stati Uniti. Su questo, le piccole e medie dimensioni delle nostre aziende potrebbero consentirci una rapidità e flessibilità maggiore di altri Paesi.

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