Il crollo del prezzo del petrolio non è per tutti una buona notizia

Il prezzo del petrolio è sceso ai livelli più bassi dal 2021. Allora il mondo era ancora alle prese con la ripresa post-Covid e l’inflazione non si era ancora manifestata. Il greggio americano, misurato dal West Texas Intermediate , è sceso sotto i 60 dollari al barile: praticamente la metà del picco raggiunto poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Le ragioni sono complesse e riguardano soprattutto i timori che i dazi di Trump rallentino l’economia globale, portando a un calo della domanda di petrolio. Una buona notizia per gli automobilisti, che potranno fare il pieno a prezzi più contenuti. I listini di benzina e gasolio sono ai minimi da tre anni, secondo i dati raccolti dal Ministero dell’Ambiente. Ma non per tutti la caduta dei prezzi del carburante è una buona notizia. Il valore del petrolio è forse il prezzo più monitorato sui mercati finanziari internazionali. Migliaia di trader ogni giorno tentano di indovinarne l’andamento. Centinaia di petroliere solcano gli oceani per consegnarlo al più offerente. Molti contratti finanziari o di fornitura di energia sono legati alle quotazioni del greggio. E interi Paesi fanno affidamento sulle vendite di petrolio per il proprio sostentamento. Il bilancio pubblico dell’Arabia Saudita, tra i più grandi produttori al mondo, dipende dall’estrazione di idrocarburi per oltre la metà. Altrove la percentuale è ancora più alta: in Iraq il 90 per cento delle entrate statali dello Stato proviene dalla vendita di greggio. Disporre di riserve petrolifere fa un’enorme differenza sui destini dei popoli, un fatto che si nota a colpo d’occhio nella Penisola arabica. In Oman si gode di un livello di benessere invidiabile rispetto a gran parte del resto del mondo: pur non disponendo di riserve paragonabili a quelle saudite o emiratine, la vendita di petrolio garantisce ai 5 milioni di cittadini un reddito medio pari a quello del Portogallo . Il vicino di casa dell’Oman è lo Yemen, con riserve di petrolio ancora più scarse e, complici guerre civili e terrorismo, oggi ha un reddito pari a un decimo degli omani ed è uno degli Stati più poveri al mondo. Sono due gli smottamenti internazionali più interessanti provocati oggi dal crollo del prezzo del barile. Partiamo dagli Stati Uniti. Negli ultimi anni gli Usa hanno raggiunto l’autosufficienza energetica. Grazie a una nuova tecnica di estrazione – il fracking – sono diventati il più grande produttore al mondo, e passati da spendere dall’estero quasi 400 miliardi di dollari all’anno per comprare petrolio a guadagnare 45 miliardi dalla vendita di greggio americano. Lo stesso Trump è stato eletto con lo slogan “drill, baby, drill” , promettendo di rilasciare più autorizzazioni per i pozzi petroliferi. Ma il crollo del prezzo del petrolio – altro obiettivo di Trump, che ha salutato la notizia con entusiasmo – potrebbe mettere i bastoni tra le ruote al piano di incrementare la produzione di greggio americano. I produttori Usa infatti sostengono che non conviene più estrarre se il prezzo globale scende sotto i 65 dollari al barile , per via degli elevati costi di estrazione. Se le quotazioni tornassero al minimo annuo, 55 dollari raggiunti nella prima metà di aprile, si parlerebbe di una “calamità finanziaria”. E gli Stati Uniti sarebbero costretti a comprare nuovamente parte del petrolio dall’estero, dove viene estratto a costi più bassi. Secondo l’amministratore delegato di Diamondback Energy, un’importante azienda estrattiva americana, starebbe già avvenendo: “siamo a un punto di svolta, la produzione Usa ha raggiunto il picco e inizierà a calare in questo trimestre” ha detto. Ma se Washington piange, Mosca non ride. La Russia è un altro grande produttore di petrolio, da cui deriva circa un terzo dei proventi che finanziano il bilancio dello Stato. Con prezzi così bassi, il Cremlino faticherà a far quadrare i conti nel 2025. Le quotazioni attuali sono del 40 per cento più basse di quelle riportate nel bilancio di previsione. Se il mercato si stabilizzasse su questi livelli, mancherebbero all’appello diverse decine di miliardi. Tanto che il ministro delle finanze è stato costretto a rivedere al rialzo il deficit pubblico e a rimpinguare le casse pubbliche con i soldi del fondo sovrano russo. Qualora non fosse sufficiente, l’unica scelta che rimarrebbe a Vladimir Putin per continuare a finanziare la guerra in Ucraina sarebbe alzare le tasse ai contribuenti russi.

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