Smart working, lavoratori disposti a rinunciarci solo se aumenta lo stipendio. L’analisi
EconomiaIntroduzione
Il periodo della pandemia da coronavirus diventa sempre più un ricordo e molte abitudini nate in risposta all’emergenza sanitaria sbiadiscono. Così è per lo smart working come regola e non come eccezione: sono sempre di più le imprese che hanno deciso di fare marcia indietro e di tornare alla tradizionale vita da lavoro in ufficio. Ma agli italiani questo non piace, come emerge da una recente analisi condotta dalla società di recruiting HAYS Italia, insieme allo Studio legale Davide&Florio. Solo per il 14% del campione di intervistati tornare in ufficio in pianta stabile non sarebbe un problema (si tratta di 705 professionisti che al momento lavorano da remoto, totalmente o in parte, tra 113 micro/piccole imprese, 175 medie, 156 grandi e 261 molto grandi/multinazionali). Per tutti gli altri invece creerebbe disagio, tanto che i tre quarti del campione inizierebbero a cercare una nuova occupazione (68%) o lascerebbero immediatamente il proprio lavoro anche senza avere un’alternativa (7%).
Quello che devi sapere
Per tornare in ufficio si chiederebbe il 30% in più di stipendio
- Cosa potrebbe convincere i lavoratori a rimanere in azienda anche in assenza di smart working? La ricerca di HAYS cita "un buon aumento di stipendio" per gli uomini e "più flessibilità oraria rispetto alla media" per le donne. Resta dunque centrale l’aspetto economico: per adeguarsi alla fine dello smart working in media si chiede un aumento di stipendio del 30%. Si tratterebbe di 7mila euro all’anno, considerando come stipendio netto medio un importo da 23.616,55 euro (per i lavoratori single e senza figli, come da dati dell’Eurostat).
Per approfondire:
Lavoro, ricerca: "Smart-working fa bene ad ambiente e a vita privata"
Lo smart working come "diritto di fatto" dei lavoratori
- Insomma: dal campione di intervistati, evidenzia Alessio Campi, People & Culture Director di HAYS Italia, "emerge chiaramente come ormai lo smart working sia uno dei primi elementi valutati da chi cerca lavoro". Le aziende che decideranno di tornare alla modalità classica in ufficio dovranno quindi "gestire attentamente e con cautela il passaggio". Elemento di riflessione ulteriore che esce dall’analisi è poi il fatto che per molti dipendenti lo smart working viene ormai considerato come "un diritto di fatto"
Opinioni divergenti
- Oggi lo smart working è quindi un diritto che si considera acquisito o va invece ancora considerato come un benefit concesso dalle aziende? Secondo l’indagine, le opinioni tra i lavoratori sul punto sono divergenti. Se da un lato c'è infatti chi già lo ritiene un diritto perché è entrato nelle abitudini dei lavoratori (22%) - o chi pensa che, pur non essendo attualmente un diritto sancito normativamente, dovrebbe diventarlo (45%) - dall’altro c'è ancora chi dichiara che la sua concessione o meno sia una decisione da prendere solamnente in seno all’azienda, in base alla propria struttura organizzativa e alle esigenze operative (31%)
Lavoro agile solo su accordo tra le parti: non è un diritto
- Cercano di far luce sulla natura giuridica della questione i legali Simone Brusa e Olindo Genovese dello Studio Daverio&Florio: "Dal punto di vista giuridico - spiegano ad HAYS Italia - il lavoro agile deve essere necessariamente frutto di un accordo tra le parti e non è quindi un diritto. D’altra parte, è innegabile che tanti lavoratori - che negli anni passati hanno fruito dei benefici di un lavoro svolto (almeno in parte) da casa – percepiscano tale possibilità come un tratto oramai caratterizzante la propria attività lavorativa"
La legge del 2017
- I legali ricordano comunque che lo smart working non è sbarcato nel nostro sistema solamente con la pandemia, ma con una norma del 2017. La legge in questione, sottolineano, era nata non solo per agevolare la "conciliazione dei tempi di vita e di lavoro", ma anche per "incrementare la competitività" delle aziende, lasciando al datore di lavoro "ampia libertà nel costruire i modelli organizzativi"
Le voci più critiche contro il ritorno in ufficio sono le lavoratrici
- Al di là di questo, si evidenzia come le voci più critiche contro un eventuale ritorno full time in ufficio siano quelle delle lavoratrici: il 72% di loro piuttosto che farlo cercherebbe un nuovo lavoro, contro il 63% degli uomini (percentuale comunque alta). Soltanto per il 10% delle donne ritornare in azienda non rappresenterebbe un problema, a fronte di un 16% di uomini che la pensano così
Generazioni a confronto
- Si riscontrano importanti differenze anche a livello generazionale: per gli over 50 sarebbe meno problematico rientrare in ufficio (34%) rispetto a chi ha tra i 25 e i 34 anni (5%). La prima categoria è anche più incline a percepire lo smart working solo come un benefit e non come un diritto (49% vs 25%)
Anche le dimensioni delle aziende influiscono
- Un'altra variabile che influsice è la dimensione delle aziende. Dal report emerge come chi lavora in una piccola impresa è solitamente meno critico nei confronti del rientro (per il 22% non sarebbe un problema) rispetto ai dipendenti di aziende di medie dimensioni (16%), grandi (12%) e multinazionali (10%).
Per approfondire:
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- Per tornare in ufficio si chiederebbe il 30% in più di stipendio
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