Il progetto ereditato dal precedente governo non soddisfa le linee guida europee (modificate di recente) né i principi di un management davvero efficiente. In queste condizioni a rimetterci sarebbero soprattutto giovani e donne. In generale ne uscirebbero ridimensionate le possibilità di ripresa economica del Paese. Ecco perché osservatori, Parlamento, governo dovrebbero tenere conto delle best practices internazionali e procedere alla rimodulazione profonda del piano. Analisi della School of Government della Luiss
La bozza del piano italiano di Ripresa e Resilienza (PNRR), varata il 12 gennaio 2021, cioè prima della pubblicazione della versione aggiornata delle linee guida predisposte da Bruxelles il successivo 22 gennaio, e prima dell’approvazione del Regolamento (UE) 2021/241 del 12 febbraio 2021 che ha disciplinato il nuovo dispositivo previsto NextGenerationEU (NGEU), appare ora un piano bisognoso di una sostanziale rimodulazione. La corsa dell’Italia a presentare frettolosamente il piano fu determinata da vari motivi, in primis la speranza (poi rivelatasi un’illusione) che sarebbe stato possibile ottenere le prime risorse già alla fine del 2020; poi l’auspicio di archiviare per sempre la spinosa e politicamente esplosiva questione del “Mes sanitario”. La scadenza prevista per la consegna del piano, che sarà sottoposto alla valutazione della Commissione e all’occhio attento degli altri Paesi membri, è prossima, ma il rischio di incorrere non tanto in una sonora bocciatura (il minore dei mali) quanto nell’adozione di un piano votato alla sicura inefficacia (non spenderemo il denaro), o peggio ancora che il piano rimanga alla mercé di interessi contingenti (spenderemmo troppo per una ripresa effimera e troppo poco per la resilienza di cui beneficerebbero le future generazioni), dovrebbe indurre il governo a “ripartire da zero”. Le ragioni sono almeno due. La prima è da ricercare nei vizi di progettazione dell’attuale PNRR; la seconda, che richiede una soluzione più complessa, nella necessità di assicurare efficacia al Recovery Plan nonostante il track record del nostro Paese in tema di spesa di fondi europei lasci presagire un flop. Approfondiamo le due questioni.
Perché non è sbagliato guardare cosa fanno gli altri Paesi europei
Il vizio di progettazione nella bozza del PNRR italiano, evidente già a una lettura dell’indice del documento programmatico, è l’evidente disallineamento delle missioni previste dal PNRR voluto dall’ex Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, rispetto alle missioni introdotte dal Regolamento europeo (vedi figura sottostante dove sono colorate le missioni del PNRR che trovano un riscontro diretto in uno dei pilastri previsti dall’art. 3 del Regolamento UE 2021/241, marcato con l’analogo colore, mentre sono lasciate in bianco tutte le altre). Circostanza questa che apparirà ancora con maggiore evidenza dall’analisi comparata che il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha affidato alla società di consulenza McKinsey, la quale, come anche altre multinazionali della consulenza e centri di ricerca internazionali, da mesi cura un osservatorio sul Recovery Plan. Più in generale, sono numerosi gli studi sull’impatto della pandemia sui processi di ripresa e resilienza e tra questi particolarmente significativo quello promosso dal Pardee Center for International Futures dell’Università di Denver, negli Stati Uniti, che ha pubblicato a dicembre scorso il rapporto “Impact of COVID-19 on the Sustainable Development Goals: Pursuing the Sustainable Development Goals (SDGs) in a World Reshaped by COVID-19”. Non si tratta evidentemente di una mera questione lessicale, ma talvolta di una vera e propria latitanza, come l’assenza nel piano italiano di un Pilastro per i giovani, i giovanissimi e le nuove generazioni, già rimarcata in questa sede (v. Policy Brief n. 02/2021).
A questa carenza, tuttavia, è possibile porre rimedio con una riallocazione delle componenti e degli interventi del PNRR all’interno dei nuovi pilastri. Un esercizio non solo formale ma sostanziale, con evidenti ricadute sulla governance dei singoli pilastri e il coordinamento degli interventi in esso previsti ma anche sulla consistenza delle risorse a questi ricondotti. È il caso di Ricerca e Istruzione, “compressi” nella medesima missione (la missione 4 dell’attuale PNRR). Un’impostazione che finisce per sacrificare due importantissime componenti per il rilancio del nostro Paese, alle quali invece il Regolamento UE destina ampio spazio in due distinti pilastri, quello per le giovani e future generazioni (dove è presente la componente Istruzione) e quello per la crescita intelligente, sostenibile e inclusiva (dove è presente la componente ricerca).
approfondimento
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Ora non servono progetti, servono indicatori quantificabili e “milestones” verificabili
La seconda e assai più grande difficoltà e quella di dare “concretezza” al Piano italiano, oggi appoggiato su assunti e dichiarazioni di principio ai quali spesso non seguono chiare indicazioni sul come sostenerne l’attuazione. È il caso, per esempio, della priorità orizzontale riconosciuta alle Regioni meridionali, allo scopo di “ridurre i divari territoriali e liberare il potenziale inespresso di sviluppo del Mezzogiorno, massimizzando, nelle Linee di intervento di ciascuna missione, i progetti volti al perseguimento dell’obiettivo, che vale anche come criterio prioritario di allocazione territoriale degli interventi”. Nello specifico il documento fa riferimento al Piano Sud 2030 varato nel febbraio dell’anno scorso, che invocava il riequilibrio delle risorse ordinarie per gli investimenti senza indicatore di attribuzione, con l’effettiva applicazione della clausola del 34%, rafforzata nella Legge di bilancio 2020, ovvero con una distribuzione quantomeno proporzionata agli abitanti delle otto Regioni del Sud e l’emersione nel periodo 2020-22 di maggiori risorse per investimenti al Sud per almeno 7,6 miliardi di euro addizionali. Sempre nel PNRR citato, si legge che “nella definizione delle linee progettuali e di intervento del PNRR, pertanto, sarà esplicitata la quota di risorse complessive destinata al Mezzogiorno, che può valere anche come criterio prioritario di allocazione territoriale degli investimenti previsti” e saranno favorite sinergie e complementarietà fra le risorse provenienti dal Recovery Plan, quelle fornite da REACT-EU, e la quota anticipata del Fondo Sviluppo e Coesione (FSC)2021-2027”. Nelle tabelle finanziarie del piano, tuttavia, risultano chiaramente identificate soltanto le misure per il Sud finanziate con le risorse del REACT-EU per una somma complessiva di 8,7 miliardi di euro. Assai più vaga l’allocazione delle risorse per le Regioni del Mezzogiorno da finanziare con il Dispositivo di Ripresa e Resilienza (RRP), dove sono poche le misure specifiche che risultano interamente destinate alla Macroarea oppure con una riserva di impegno in tal senso, pari a poco meno di 20 miliardi di euro (stima Fondazione Bruno Visentini). Ne consegue che le risorse predeterminate per il Sud, al lordo di eventuali future rimodulazioni del PNRR, risultano essere pari a 28,347 miliardi di euro, vale a dire il 12,66% delle somme complessivamente programmate per NGEU in Italia.
Per le altre risorse programmate non vi sono indicazioni circa il fatto che siano concentrate nelle aree del Sud. Eppure, in coerenza con il principio per cui le risorse europee andrebbero concentrate nelle regioni maggiormente in ritardo di sviluppo, dovrebbero essere previsti criteri oggettivi, come quello, peraltro, stabilito dall’allegato II del citato Regolamento UE 2021/241 che fa riferimento, per la determinazione del coefficiente di distribuzione delle risorse agli Stati membri, al Pil pro-capite e al tasso di disoccupazione medio nel triennio antecedente alla pandemia. Le opzioni sul tavolo sono molte, da quella di traslare la formula adottata a Bruxelles nella dinamica di allocazione delle risorse in ambito nazionale, a quella di predeterminare coefficienti specifici per i singoli pilastri del PNRR, prendendo in considerazione indicatori che meglio possano fotografare il reale divario tra un’area del Paese con un’altra. Stesso problema per le pari opportunità, relegate anch’esse dall’attuale PNRR varato dal governo Conte – proprio come il Sud e i giovani – nell’impalpabile area delle priorità orizzontali.
Esulando dal caso specifico delle priorità orizzontali, in generale poi sono state ignorate le regole di pianificazione internazionalmente riconducibili al “Project Circle management” e più recentemente al formidabile apparato di indicatori e target alla base dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. La regola numero uno è che, in tutte le fasi di realizzazione di un progetto, ci deve essere una stretta relazione tra gli indicatori che permettono di “fotografare” una situazione di partenza e predeterminare una sua evoluzione “a bocce ferme” (la cosiddetta “baseline”), e i target che fissano un’asticella sulla base della quale si potrà valutare l’intervento previsto per giudicarlo efficace o, in caso contrario, da rimodulare o addirittura da interrompere. La regola numero due è che deve essere adottato un approccio multidimensionale, secondo il quale una certa politica potrà dirsi efficace non solo se realizza i suoi obiettivi, ma se l’intero impianto (nel caso del Recovery Plan, tutte e sei le missioni o pilastri) li raggiunge. La regola numero tre è che ad integrare i target e gli indicatori quantitativi vi devono essere delle vere e proprie pietre miliari (le cosiddette “milestones”), come riforme, provvedimenti legislativi, nuova strumentazione fiscale, tutte accertabili oggettivamente. Ora questa “ignoranza” delle regole del gioco non può più sussistere, a tutti i livelli dell’amministrazione, e il futuro PNRR dovrà rappresentare la principale linea guida per raggiungere gli obiettivi legati alle risorse del Recovery Plan. Vale la pena, dunque, rimodularlo in modo sostanziale per non perdere un’altra occasione.