La crisi iniziata nel 2008? “Un infarto dell’economia"

Economia
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Dal crack di Lehman Brothers alle politiche espansive adottate dalla Fed, gli ultimi anni del sistema finanziario riletti in un libro del sociologo Magatti (editore Vita e Pensiero) con una metafora clinica che suggerisce una via d'uscita. ESTRATTO

di Mauro Magatti

Nell’autunno 2008 la crisi scoppia nel ‘cuore’ del sistema economico mondiale. Dopo una serie di bolle speculative che avevano colpito zone periferiche, a entrare nell’occhio del ciclone è direttamente Wall Street, con le sue principali istituzioni finanziarie. Nella misura in cui il sistema finanziario può essere paragonato all’apparato circolatorio e Wall Street al cuore da cui vengono pompate le risorse necessarie alla crescita dell’intero organismo (l’economia mondiale), la crisi può essere paragonata a un infarto.
Il collasso delle principali banche d’affari newyorkesi interrompe il circuito finanziario, architrave del sistema economico globale e della straordinaria crescita registrata negli ultimi due decenni.

Dal punto di vista medico, l’infarto del miocardio è definito come l’interruzione della fornitura di sangue a una parte del cuore, interruzione che provoca la morte di alcune cellule con la conseguente interruzione dell’attività cardiaca che, se non ristabilita, porta al decesso. Come recita la letteratura medica, «l’infarto è molto comunemente causato dall’occlusione di un’arteria coronarica a seguito della rottura di una placca aterosclerotica vulnerabile, che è una raccolta instabile di lipidi (come il colesterolo) e di globuli bianchi (in particolare macrofagi) della parete di un’arteria».

In medicina, l’evento infartuale viene spiegato con riferimento a due ordini di ragioni. Il primo riguarda le eventuali patologie dell’organo che ne pregiudicano il funzionamento; il secondo attiene, invece, allo stile di vita e all’accumulo di elementi nocivi nel sangue che, col tempo, possono determinare l’occlusione arteriale. È impressionante constatare come questa definizione ci aiuti a capire quanto è accaduto nell’estate del 2008. In economia, l’elemento centrale che consente al sistema finanziario di funzionare correttamente è costituito dalla fiducia. È la fiducia, infatti, che consente l’interscambio di titoli di pagamento complessi come quelli su cui si reggono le economie avanzate, ormai privi di qualsiasi ancoramento a una qualche entità di tipo materiale, ancoramento garantito fino al 1971 dalla parità oro-dollaro.
Con la decisione di Richard Nixon di revocare unilateralmente tale vincolo, per il sistema economico internazionale comincia una nuova era nella direzione di una sua crescente astrazione.

Nel quadro del sistema che si è andato costruendo a partire dagli anni Ottanta, la fiducia è venuta a costituirsi sulla combinazione di due presupposti di legittimazione. Il primo è di natura tecnica: la solidità del sistema finanziario costruito dopo il 1989 si è basata sulla sua straordinaria affidabilità tecnica, che trovava il suo fondamento in strumenti di elaborazione del rischio particolarmente evoluti resi possibili da teorie e strumenti di calcolo assai sofisticati. Nel momento della sua massima espansione, la sicurezza dell’intero sistema è stata costruita su raffinatissimi modelli matematici che si accoppiavano allo sviluppo e all’impiego sistematico di dispositivi telematici e informatici dotati di una crescente capacità di elaborazione.

Non a caso, tra il 1995 e il 2005, ben due premi Nobel per l’economia sono stati attribuiti a studiosi che si erano resi protagonisti di innovazioni finanziarie fondamentali nel rendere possibili e diffondere le pratiche che sono all’origine dell’infarto.
Il secondo presupposto è di natura politica. Il sistema finanziario internazionale ha potuto crescere così velocemente perché alle sue spalle c’erano la Fed – cioè la banca centrale americana – e il governo americano, con tutto il suo potere di influenza sulle istituzioni internazionali (FMI, Banca Mondiale, WTO).
Il pilastro politico ha operato attraverso una duplice modalità. Da un lato, la convergenza attorno a un modo di pensare che ha costituito il presupposto di un sistema fiduciario (sufficientemente) stabile. Tale convergenza di visione è stata costruita, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, tra Tesoro americano, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. Per quanto diversa fosse la natura tra il primo soggetto – direttamente espressione di un Paese sovrano – e gli altri due – trattandosi di organismi internazionali –, il ruolo egemonico degli Stati Uniti ha reso possibile una loro intima e diretta interconnessione. Il cosiddetto Washington Consensus non è stato altro che la definizione di linee strategiche condivise da queste tre istituzioni economiche, a partire dalle quali una nuova visione della politica economica, più adatta ai tempi, ha potuto essere disegnata. Tra i suoi aspetti principali, tale visione includeva una ferrea disciplina fi scale, la liberalizzazione dei tassi di interesse, la defi nizione di tassi di cambio coerenti con una politica outward oriented, la liberalizzazione delle importazioni e degli investimenti diretti esteri, la privatizzazione delle imprese pubbliche, la deregolazione del mercato del lavoro e la protezione dei diritti di proprietà. Tutti temi che hanno trovato puntualmente riscontro nei due decenni successivi.

Dall’altro lato, l’espansione quantitativamente impressionante degli scambi finanziari a livello mondiale non avrebbe mai potuto avere luogo senza la garanzia politico-istituzionale di un centro in grado di determinare le regole del gioco e di intervenire a reprimere i comportamenti considerati impropri o inopportuni. Le azioni del FMI tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila devono essere interpretate in tal senso. Al fondo di tutto, campeggiava l’assunto implicito, condiviso da tutti i principali attori finanziari, che fosse possibile, in ultima istanza, scaricare su terzi (istituzioni internazionali e governo americano) le eventuali conseguenze negative derivanti dagli elevati rischi che venivano presi. Di questo erano certi i grandi players finanziari, i quali ritenevano di essere too big to fail: di fronte a un eventuale tracollo, la Fed li avrebbe comunque salvati in ragione del ruolo strategico svolto nel permettere e sostenere la straordinaria crescita degli scambi finanziari globali.

Su questa base si è potuto radicare quel comportamento che gli economisti chiamano moral hazard e che può essere defi nito, a livello macro, come la tendenza all’assunzione di un rischio maggiore di quello che si sarebbe disposti a sostenere se non si sapesse di essere esonerati dalle eventuali conseguenze negative del rischio stesso. Il moral hazard è, in sostanza, un particolare tipo di comportamento di rischio che si basa sulla fondata convinzione che le eventuali perdite verranno socializzate, ovverossia accollate alla collettività o comunque a soggetti terzi, mentre gli eventuali guadagni, di natura strettamente privata, rimangono al soggetto che si assume il rischio.

Gli stessi ‘derivati’, che in sé possono essere visti come strumento sia di assicurazione sia di esasperazione del rischio, nel corso del tempo sono stati impiegati in modo sempre più massiccio in quest’ultima direzione. Ciò ha stimolato la diffusione di un tipo di comportamento ‘azzardato’. Un tale comportamento è ben esemplificato dal famigerato caso della diffusione dei finanziamenti subprime, il cui valore, nel 2007, aveva raggiunto l’iperbolica cifra di 1.300 miliardi di dollari americani (nel 1993 contavano 33 miliardi). Come suggerisce la stessa denominazione, i mutui subprime, a differenza dei mutui prime, sono crediti concessi a mutuatari che non offrono garanzie di solvibilità o che offrono garanzie deboli. Ma, nel quadro finanziario che si era ormai configurato, questo non costituiva problema nella misura in cui il rischio connesso poteva venire venduto a società specializzate nella sua gestione. Ciò ha favorito la tendenza a una sovraesposizione, in particolare da parte delle banche di investimento, favorita dalla possibilità di scaricare su terzi il rischio tramite la cartolarizzazione dei mutui, la trasformazione dei crediti in obbligazioni vendute sul mercato o girate sui veicoli d’investimento strutturato, o sui conduits, appositamente creati dalle banche stesse.

In buona sostanza, la stabilità di un sistema in espansione era ottenuta attraverso una fede smisurata nella tecnica rafforzata dalla certezza di poter contare su un’autorità politica disposta a intervenire in ultima istanza. In effetti, nella prima fase della crisi, nel momento in cui entrano in fibrillazione alcune grandi banche di investimento – Merrill Lynch, JP Morgan e Goldman Sachs – il governo americano ha messo in campo un intervento deciso. Ma lo scenario cambia totalmente quando, a seguito di un momento di disorientamento delle autorità monetarie americane, spaventate dalla voragine che vedevano aprirsi davanti a loro, il salvataggio non viene concesso a Lehman Brothers.
Per un momento, di fronte all’abnorme livello quantitativo raggiunto da parte di questi strumenti finanziari, è come se l’arcano si fosse rivelato, portando allo scoperto l’insostenibilità dell’intero sistema. È il momento dell’infarto. Come nel caso del miocardio impossibilitato a funzionare, così il mancato sostegno del governo americano a una grande banca d’affari che vede crollare il proprio portafoglio determina il repentino crollo della fiducia, che a sua volta inceppa l’intero circuito finanziario mondiale, con tutte le conseguenze che ne sono derivate.
Di colpo, l’intero sistema finanziario globale si ritrova sospeso sul nulla, dato che diviene evidente che il gigantesco accumulo di promesse di pagamento, tecnicamente sempre più sofisticate, non avendo più una sponda politica su cui fondarsi, ha letteralmente corso il rischio di crollare.

Ciò ha significato trovarsi all’improvviso in una condizione del tutto diversa da quella che, fi no al giorno prima, veniva data per scontata. In particolare, i prodotti derivati, immediatamente ribattezzati ‘titoli tossici’, hanno cominciato a scottare: il loro possesso diventa problematico, dato che nessuno è più nelle condizioni di garantirli. Improvvisamente ci si trova di fronte a un crollo sistemico della fiducia che, interrompendo quella circolazione su cui l’intero sistema si reggeva, è la causa scatenante dell’infarto. Per alcune settimane, il sistema entra in tilt, esponendo l’intera economia mondiale al rischio di un tracollo devastante: un sistema pensato per espandersi non può reggere un’improvvisa inversione di tendenza. Spezzando la spirale ascendente delle aspettative, creando incertezza, demolendo la fiducia, una situazione del tipo di quella appena descritta poteva determinare il collasso dell’intero sistema economico mondiale (tenuto conto del livello di interconnessione venutosi col tempo a creare tra le diverse aree del pianeta). Dopo un momento di smarrimento, resesi conto di quali avrebbero potute essere le conseguenze, le autorità monetarie americane hanno deciso di intervenire per stabilizzare la situazione.

L’iniezione di 700 miliardi di dollari da parte del governo USA è stata fondamentale per tamponare la crisi – ristabilendo, nel breve, una parte della fi ducia che era venuta meno – e riattivare i circuiti che si erano interrotti. Nel momento in cui l’iniezione di una così grande quantità di liquidità ha permesso di evitare il peggio, molti hanno pensato che la tempesta avrebbe potuto considerarsi superata e l’ordine ristabilito. Ma, col tempo, le cose si sono rivelate più complicate del previsto. La psicologia post-infartuale è anch’essa utile nel capire le reazioni a quanto accaduto. Come capita spesso dopo un infarto, il paziente, non appena si sente meglio grazie alle terapie che gli vengono somministrate, prova a ripartire, facendo finta che non sia accaduto nulla. Di questo primo tipo di reazione se ne ha avuta traccia anche nel caso della crisi finanziaria. Da un lato, le terapie: le politiche espansive adottate dalla Fed – le cosiddette azioni di quantitative easing – hanno cercato di sostenere un corpo (quello economico) divenuto improvvisamente anemico. Immettendo denaro e mantenendo il tasso di interesse vicino allo zero, in questi cinque anni la Fed ha fondamentalmente guadagnato tempo, cercando di creare le condizioni per una ripresa dell’economia e per una sua modificazione strutturale.

L’intervento è stato certamente provvidenziale, nel senso che l’azione della banca centrale americana ha evitato il peggio, anche se l’attesa azione di riorganizzazione è stata debolmente sviluppata. Nonostante la buona volontà, l’amministrazione Obama in questi cinque anni ha compiuto solo pochi passi in avanti nella direzione di una nuova struttura regolativa in grado di limitare gli eccessi precedenti. Solo alla fi ne del 2013, dopo cinque anni dall’inizio della crisi, con l’approvazione della cosiddetta Volker Rule – che limita le attività più rischiose delle banche (mettendo in particolare paletti tra gli investimenti che possono essere fatti con denaro proprio e quello dei clienti) – l’amministrazione americana ha cominciato a cambiare direzione. Ma, al di là di questo, il problema – ed è la fase in cui siamo adesso – è quello di superare la ‘dipendenza dal farmaco’ – la moneta facile – e ritornare a una situazione di normalità – attraverso il cosiddetto tapering (cioè il rallentamento da parte dell’istituto centrale americano nel ritmo di riacquisto di assets sul mercato). Dall’altro lato, i mercati finanziari e Wall Street: dopo la brusca caduta registrata a fine 2008, l’intervento del governo è stato sufficiente per rimettersi al lavoro ritornando al business as usual. Quasi non fosse successo nulla: come dimostra il fatto che, nonostante il perdurare della crisi, Wall Street ha segnato in questi anni nuovi record.
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Tratto da Mauro Magatti, L'infarto dell'economia mondiale, Vita e Pensiero, pp. 98, euro 10

Mauro Magatti (1960), sociologo ed economista, è professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Tra i suoi libri più recenti: Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista (2009), La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto (2012), Una nuova prosperità (2013, con Laura Gherardi), Generativi di tutto il mondo unitevi (2014, con Chiara Giaccardi).

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