Apple e gli altri, quando la tecnologia è “conflict-free”

Economia
Nella foto di archivio una protesta di Greenpeace in un Apple Store di Hong Kong dell'aprile del 2012 - Credits: Getty Images
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Il colosso di Cupertino ha certificato di non utilizzare metalli provenienti da Paesi con conflitti armati o dove sono stati violati i diritti umani. Come la Repubblica Democratica del Congo. E altri colossi hi-tech si stanno impegnando a fare lo stesso

di Nicola Bruno

Si chiamano tantalio, tungsteno, stagno e oro. Ma per gli addetti ai lavori sono meglio noti come “conflict minerals”, cioè metalli spesso prodotti in paesi con conflitti armati e sotto violazione dei diritti umani.
Proprio l’estrazione di questi materiali ha alimentato un sanguinoso conflitto nella Repubblica Democratica del Congo, dove dal 1994 a oggi sono morti più di 5 milioni di civili. Nelle aree orientali del paese del centro Africa viene infatti prodotto il 17% del tantalio globale, oltre al 4% di stagno, il 3% di tungsteno, il 2% di oro.
Mentre ancora oggi continuano le violenze sui civili, la domanda di questi minerali è in forte crescita per la realizzazione di processori, cellulari, computer, console per videogiochi e altri dispositivi elettronici (guarda il video di Enough Project su come vengono impiegati nei gadget che utilizziamo tutti i giorni).
Ma grazie alle pressioni di diverse Ong, alcune cose stanno iniziando a cambiare, con l’introduzione di normative più severe per la tracciabilità dei fornitori e sempre più colossi hi-tech che scelgono di realizzare dispositivi “conflict-free”.

Apple è conflict-free - Nell’ultimo report di responsabilità sociale Apple ha annunciato che la propria filiera di produzione è diventata “conflict-free”. E, cioè, è stato possibile certificare (attraverso enti di valutazione esterna) che tutto il tantalio utilizzato nei propri gadget non proviene da zone con conflitti in corso.
Il colosso di Cupertino ha pubblicato la lista delle 59 fonderie da cui si rifornisce, molte delle quali già aderiscono al Conflict-Free Smelter Programme, un consorzio finanziato da Apple, Microsoft, IBM, HP, Sony, Dell e altre compagnie tecnologiche che permette ai fornitori di certificare la provenienza dei materiali utilizzati.

I complimenti di Greenpeace - I passi in avanti di Apple sono accolti con favore da Greenpeace che ha riconosciuto come la trasparenza stia diventando “il marchio distintivo della gestione Tim Cook”. L’associazione ambientalista ha apprezzato gli sforzi di Apple per “spingere i fornitori a rimuovere sostanze pericolose dai propri prodotti e fornire più energia rinnovabile per i propri data center. Samsung e le altre compagnie elettroniche dovrebbero fare lo stesso”.
Questi complimenti saranno di certo stati graditi a Cupertino: nel 2007 Greenpeace aveva dichiarato che Apple era la peggiore compagnia in quanto a sostenibilità ambientale.

Gli altri colossi hi-tech - Apple non è comunque l’unico colosso che sta cercando di eliminare i “conflict minerals” dai propri gadget. All’ultimo CES di Las Vegas, Intel ha annunciato che tutti i processori prodotti nel 2015 conterranno materiali che non provengono da zone di conflitto armato o dove ci sono state violazioni dei diritti umani.

Guarda il video



Da Samsung a LG, passando per Microsoft e Sony, la maggior parte delle compagnie tecnologiche si stanno impegnando per certificare la provenienza dei materiali e tracciare meglio i propri fornitori. Altri colossi, invece, continuano a restare nel mirino delle Ong: è il caso di Nintendo che, secondo alcuni report recenti è ancora poco trasparente sulla provenienza dei minerali contenuti nelle proprie Wii.

La classifica - In effetti, nell’ultima classifica realizzata dall’organizzazione non governativa Enough Project nell’ambito della campagna Raise Hope for Congo!, Nintendo si trova nelle ultime posizioni, insieme a HTC, Sharp, Nikon e Canon. Semaforo giallo per altri colossi come Lenovo, Toshiba, Sony, Samsung, LG e IBM. Mentre passano l’esame Intel, HP, Philips, Acer, Dell, Apple, Microsoft, Motorola, Nokia e Panasonic perché, secondo l’Ong, hanno “intrapreso misure proattive per tracciare i propri fornitori (…) e hanno iniziato ad aiutare il Congo per sviluppare un commercio pulito”. La classifica è stata stilata nel 2012, ma, come ha spiegato un portavoce di Enough Project a SkyTG24.it, “riflette in maniera accurata l’attuale situazione delle compagnie”.

Obblighi di legge
- Dove non arriva la volontà delle singole compagnie, possono però arrivare i governi. E’ il caso di quello statunitense che nell’ambito del Dodd Frank Act ha imposto a tutte le compagnie tecnologiche di dichiarare la presenza o meno di “conflict minerals” nei propri prodotti entro la fine di maggio 2014.
L’Unione Europea si trova ancora indietro su questo fronte. Il Commissario al Commercio Estero Karel De Gucht si è impegnato a recuperare il ritardo. E, come riportato da Reuters, entro marzo dovrebbe presentare un piano per ridurre l’importazione di minerali prodotti in contesti di conflitto. L’Ue si impegna, inoltre, ad allargare la definizione statunitense di “conflict minerals” (che per ora si ferma alle zone orientali della Repubblica Democratica del Congo, all’Angola e il Sud Sudan) per includere anche paesi asiatici come la Birmania o l’Afghanistan.

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