Delitto di via Poma, chi ha ucciso Simonetta Cesaroni? La storia del caso e cosa sappiamo
Il 7 agosto 1990 la giovane venne uccisa da un ignoto killer in un palazzo a Roma: a 33 anni dal fatto ancora oggi non si sia chi sia stato. Un processo ha visto l’assoluzione dell’ex fidanzato. Nel corso del tempo ci sono stati diversi sospettati, dal portiere dello stabile fino alla Banda della Magliana, ma non ci sono mai stati gli elementi per procedere oltre
- L’omicidio di Simonetta Cesaroni, avvenuto il 7 agosto 1990, è uno dei fatti di cronaca nera che più ha colpito l’opinione pubblica in Italia negli ultimi decenni. Il delitto avvenne all’interno di uno stabile di via Carlo Poma, a Roma, motivo per cui mediaticamente è chiamato il “delitto di via Poma”. Le indagini e i processi hanno seguito numerose piste, con diversi presunti colpevoli, poi scagionati. Il caso non è stato mai risolto a distanza di 33 anni
- Simonetta Cesaroni, 20 anni, viene uccisa il 7 agosto del 1990 negli uffici dell'Associazione Alberghi della gioventù in via Poma a Roma, dove lavorava come segretaria. L'autopsia, effettuata nei giorni successivi al delitto, accerta che la morte è avvenuta circa tra le 17:30 e le 18:30, a causa di un trauma alla testa, ma l’assassino infierisce sul suo corpo (si pensa con un tagliacarte o un taglierino) per 29 volte (in foto, il funerale di Simonetta Cesaroni)
- Il corpo viene ritrovato qualche ora dopo la sua morte, alle 22:30, dalla sorella Paola che, preoccupata, allerta il fidanzato e il datore di lavoro della ragazza e si reca insieme a loro nell'ufficio. Il cadavere viene ritrovato con le gambe divaricate, senza slip e con il reggiseno alzato (in foto il mazzo di chiavi del portiere usato per entrare nella stanza)
- Dopo pochi giorni dopo viene arrestato il primo sospettato: è Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile: a suo carico c’è l’assenza durante l’ora presunta del delitto; l’acquisto di una smerigliatrice e una macchia di sangue sui suoi pantaloni. Passa 26 giorni in carcere, poi il suo avvocato convincerà i giudici a farlo uscire, nonostante i sospetti. A un esame approfondito, le tracce di sangue sui pantaloni risultano essere dello stesso Vanacore. Morirà suicida nel 2010, prima di testimoniare in un processo sul caso
- Dopo due anni dall’omicidio, il mirino degli inquirenti si sposta su Federico Valle, nipote di un architetto che viveva nello stabile. A parlare di lui è un commerciante austriaco di nome Roland Voller (in foto), conoscente della madre del giovane, che rivela ai magistrati che il 21enne sarebbe stato in via Poma all'ora del delitto e sarebbe tornato a casa con un braccio sanguinante
- Il "filone Valle" prosegue per circa un anno: nonostante gli accertamenti successivi attestino che il suo sangue non corrisponde a quello trovato su una delle porte dell’ufficio di Simonetta, la procura di Roma cerca di perseguire sia il ragazzo che Vanacore, visto come possibile complice. Le prove però sono insufficienti e così arriva il proscioglimento per entrambi da ogni accusa nel 1993. Voller si scoprirà essere poi un truffatore di professione, con legami nell’alta finanza
- Nel mirino degli inquirenti finisce poi Raniero Busco: dopo attente analisi sugli indumenti della vittima, i Ris di Parma individuano nell’allora fidanzato di Simonetta Cesaroni l’indiziato numero 1 per l’omicidio. Il sangue rilevato sulla porta della stanza dove Simonetta perde la vita mostra una parziale coincidenza di 8 alleli con quello del suo fidanzato. A ciò si aggiungono i segni di un morso sul seno sinistro della vittima, che sarebbe compatibile con l’arcata dentale dell'ex fidanzato
- Nel processo di primo grado, tra 2010 e 2011, Busco è condannato a 24 anni di carcere per l’omicidio di Simonetta Cesaroni, ma la condanna dura poco: viene infatti assolto in appello nel 2012, sentenza confermata dalla Cassazione nel 2014. Una perizia accerta che i segni sul seno di Simonetta non sarebbero quelli di un morso. "Potrebbe essere di tutto", dicono i periti. Inoltre, si scopre che il Dna trovato sul corpetto della ragazza è compatibile con quello di Busco, ma anche con altri due profili genetici di uomini mai identificati
- Non ha migliore fortuna nemmeno la pista che porta a Salvatore Volponi, datore di lavoro di Simonetta, il cui dna non combacia con quello ritrovato sul cadavere e che ha un alibi tra le 17.45 e le 18, ora del decesso. È evidente come l’omicida abbia un ruolo nella vita di Simonetta: come osservano i giudici della III Corte d'Assise di Roma, “la ragazza ha aperto la porta a qualcuno che conosceva bene”
- A trentatré anni dall’omicidio ancora oggi non si sa chi sia il colpevole. La Commissione parlamentare d'inchiesta oggi propende per l’ipotesi di un ‘insabbiamento immediato', che abbia così sviato l’attenzione da un uomo di Stato, mai indagato perché aveva un alibi. Ciò che resta, oggi, è una macchia di sangue, gruppo A positivo, non ricondotta a nessuno dei frequentatori dell'appartamento in uso all'Associazione Italiana Alberghi della Gioventù
- Nel corso del tempo sono state diverse le piste alternative: diversi sospetti sono stati avanzati sul computer di Simonetta che si pensava si potesse collegare a Videotel, un antesignano di Internet, dove poteva aver conosciuto il suo assassino, ma poi è stato accertato come non fosse stato possibile. Si è poi pensato che la Banda della Magliana potesse aver avuto un qualche ruolo, in combutta con i Servizi segreti, magari dopo la scoperta di qualcosa di compromettente da parte di Simonetta, ma anche quest’ipotesi è stata accantonata
- Altro fattore poco considerato sono state le chiamate anonime che Simonetta Cesaroni avrebbe ricevuto al lavoro, tempo prima di essere uccisa. Nel 2022 fonti giornalistiche hanno rivelato che la procura di Roma stava riaprendo le indagini. Qualcuno ha raccontato al poliziotto Antonio Del Greco, allora a capo delle indagini, che una delle persone al tempo ascoltate ha detto una bugia: “La caduta dell'alibi si concilia con accertamenti fatti all'epoca e che portarono poi a un sospetto nei confronti di questa persona”