Esiste il “paradosso nordico” per i femminicidi?

Jessica Stapazzolo Custodio de Lima, uccisa a 33 anni in provincia di Verona. Luciana Ronchi, 62 anni, uccisa a coltellate a Milano, Pamela Genini di 29 anni, a Milano, Clara Mancini, 61 anni, a Pescara, Elisabetta Polcino, 49 anni, a Benevento. Sono i nomi delle donne uccise da compagni o ex compagni nelle ultime settimane, una forma di violenza estrema che non fa differenze tra nord e sud Italia. “Da economisti siamo abituati a vedere mappe che dividono in due il nostro paese, ma per i femminicidi non è così”, dicono gli autori di uno studio dedicato alle caratteristiche territoriali dei femminicidi, presentato mercoledì 29 ottobre in Senato su iniziativa della senatrice Cecilia D’Elia, vice presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio. Per realizzare questa analisi gli economisti Augusto Cerqua, Costanza Giannantoni, Marco Letta e Gabriele Pinto hanno ricostruito manualmente tutti i casi di femminicidio in Italia dal 2006 al 2022, partendo dai report annuali della Casa delle Donne di Bologna, e integrando ogni episodio con notizie locali per localizzare con precisione il comune dove l’omicidio è avvenuto. Non esiste infatti un registro pubblico e istituzionale con la serie storica dei femminicidi per risalire con precisione alle indicazioni territoriali dove sia avvenuto il reato, all’età delle vittime o alle denunce pregresse sugli autori per maltrattamenti o stalking. Esistono i cosiddetti “controdati” prodotti dalle realtà femministe come l’Osservatorio Non una di meno o i report della Casa delle Donne di Bologna, che ha iniziato a contare i femminicidi nel 2005. Un algoritmo per identificare i fattori di rischio Se il tasso di omicidi in Italia si è dimezzato negli ultimi anni, arrivando a 0,55 omicidi ogni 100mila abitanti, al di sotto della media europea che è di 0,9, i femminicidi rimangono stabili. I ricercatori hanno cercato di capire perché questo dato non sia calato nel tempo, nonostante le numerose leggi approvate contro la violenza, dall’introduzione del reato di stalking al Codice rosso e l’apertura di nuovi centri antiviolenza, anno dopo anno. Grazie all’uso di algoritmi di intelligenza artificiale per identificare i fattori di rischio territoriali, il team di autori è arrivato a un risultato che sembrerebbe controintuitivo: i femminicidi non avvengono prevalentemente nelle zone più arretrate o povere del paese, come si potrebbe pensare, ma al contrario, sono più frequenti proprio nelle aree dove le donne hanno raggiunto maggiori livelli di emancipazione, ma dove la cultura patriarcale è ancora profondamente radicata. Non è quindi la povertà il principale predittore, ma il "conflitto culturale" che si crea quando le donne conquistano spazi di autonomia in contesti dove la mentalità tradizionale non ha fatto passi avanti. “Questa dinamica è nota in letteratura come 'backlash hypothesis', letteralmente 'ipotesi della reazione violenta'”, spiegano i ricercatori. In pratica: l'emancipazione femminile, quando avviene in un tessuto sociale che non l'ha metabolizzata culturalmente, può generare una reazione violenta da parte di chi si sente minacciato dalla perdita di controllo e potere. È quanto emerge anche guardando i dati dei femminicidi nel nord Europa, dove a una maggiore presenza delle donne nel mondo del lavoro e nelle strutture apicali della società, non diminuisce la violenza. Ma il paradosso “nordico” esiste davvero? Il cosiddetto "paradosso nordico" quindi sembrerebbe trovare conferma anche con i dati italiani: più cresce l’emancipazione femminile, più la risposta è violenta. Ma è davvero un paradosso? “Il femminicidio è un fenomeno complesso ed estremo, il prodotto incrociato di fattori psicologici, sociali, culturali e anche politici, e quindi non possiamo spiegarli con rapporti di causa-effetto meccanici e semplicistici”, sostiene Massimo Prearo, ricercatore in scienza politica all’università di Verona. “Quello che viene chiamato il 'paradosso' della persistenza della violenza in contesti ad alta emancipazione, parità e uguaglianza, non è un vero paradosso, perché questo significherebbe che ci aspettiamo dai programmi e dalle politiche di contrasto alla violenza esiti lineari di riduzione della violenza”, aggiunge. Cioè, i dati confermano in realtà “quanto il fenomeno della violenza di genere non sia un prodotto meccanico, per esempio, di situazioni di svantaggio o di difficoltà sociale, o di scarsa scolarizzazione, ma piuttosto un fenomeno prodotto storicamente dal modo in cui la nostra società è strutturata da una cultura patriarcale e quindi dalla logica del dominio maschile”. Per Prearo “non ha senso chiedersi se da sola l’educazione sessuo-affettiva sia in grado di ridurre effettivamente il numero di femminicidi. È un salto logico e un errore metodologico”. Invece, dovremmo capire “perché è così difficile sradicare la violenza sulle donne e di genere, in maniera più ampia?”. Il paradosso, per il ricercatore, lo spiega: “Le politiche di contrasto alla violenza di genere vanno pensate tenendo in considerazione tutte le dimensioni del fenomeno, storiche, psicologiche, sociali, culturali e anche politiche, perché solo lavorando su tutti i piani contemporaneamente è possibile intervenire sulla cultura che regge e legittima la violenza, e questo comincia dal riconoscere proprio queste dinamiche complesse. La cosiddetta Comprehensive Sexual Education è proprio questo, un modello di intervento multidimensionale”. Anche per Costanza Giannantoni, autrice dello studio della Sapienza, “con questi numeri, se non si fa qualcosa per limitare la violenza maschile verso donne e persone trans non basterebbe un centro antiviolenza ogni 1000 abitanti. E questo "qualcosa" non può che essere l'educazione sessuo-affettiva nelle scuole e, idealmente, anche nei luoghi di lavoro, per far sì che la risposta maschile davanti a una donna emancipata non sia più violenta frustrazione ma serena condivisione”. L’obiettivo dei programmi di educazione non può essere solo la riduzione del numero di femminicidi, ma per Prearo “la capacità di comprendere il fenomeno della violenza, riconoscerlo nei rapporti sociali e quotidiani, tra cui nelle cerchie intime e familiari che, come sappiamo, sono tra gli spazi più a rischio di esercizio dell’abuso e della violenza”.

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Donata Columbro