Liberi o geolocalizzati? Ecco perché serve resistere all’invasione

Prego, scomodati ché parliamo di latitanza. Devo dirti, lettore scomodo, che - personalissimamente - rispetto a molte esperienze condivise da un numero significativo di persone, io mi localizzo nelle frange della periferia più remota. La faccenda riguarda in particolare la visione di cult che non dubito minimamente siano tali, ma dei quali conosco solo i titoli. Non ho mai visto in vita mia "Grey’s Anatomy", "Breaking Bad", "Stranger Things". Intuisco dal nome di cosa parli "Lost", de "La casa di carta" ho presenti solo le maschere e che sia una produzione spagnola - credo -, mai visto "Squid Game" 1, 2, 3 o chissà a che numero siano arrivati. Non me ne faccio un punto di vanto, assolutamente. Credo invero ci sia qualcosa di strano in me - come in ogni forma di disallineamento dai propri simili. Non fare parte della maggioranza non è affatto sinonimo di patologia , però comunque interroga. Almeno, me. Non saprei dire fino in fondo e in modo soddisfacente perché io non abbia avvicinato prodotti così largamente consumati dagli altri - che peraltro puntualmente ne parlano con toni irrinunciabili, il che per assurdo mi scoraggia ancora di più! Forse un indizio sta nel fatto che se ci penso, come ora, non direi di non avere ancora visto la tale o la tal’altra cosa. Direi che non l’ho vista perché non intendo farlo. Non mi è sfuggita, non sono rimasta indietro. Sì, certo, fatico a mantenere fede a un appuntamento seriale - eppure il Mussolini di Marinelli l’ho visto tutto eccome così come "And just like that" e "Emily in Paris", quindi non può trattarsi solo di mancanza di tempo a disposizione per tenere il passo del rilascio delle puntate. Sì, sono un po’ allergica alle cose delle quali sento parlare tutti eppure il mio film preferito di sempre è Titanic che come una squilibrata iniziai a guardare un numero insensato di volte sin da quando uscì al cinema, spendendo in biglietti per le sale soldi che all’epoca non avevo. Quindi non può essere puro snobismo, il mio - per quanto un film indipendente turkmeno sottotitolato mi intrigherà sempre un po’ di più di un blockbuster ambientato nello spazio. …vediamo, che altro… ? Non so, credo in ultima analisi di avere una cruna dell’ago un po’ intermittente: passano cose poco coerenti tra loro che probabilmente non permetterebbero di profilarmi con chiarezza come utente. Metteteci anche il fatto che per come vivo la mia vita, tutta una serie di produzioni per me sono un deterrente, perché mi costringono a pensare quando magari vorrei solo, a fine giornata, vedere gli occhi chiari di Joshua Jackson in Doctor Odissey e mantenermi su un livello molto più che basico - e non fare doppia corvée continuando a lavorare davanti a una sceneggiatura sul rapporto genitori e figli. Insomma: vuoi che forse ho gusti strampalati, vuoi che vado molto a istinto, vuoi che spesso l’estetica di una locandina o di un font mi intiepidiscono, vuoi che evidentemente non mi fido nemmeno molto dei suggerimenti altrui per cui se a tutti piace la tal cosa io non sono sicura che possa interessare anche a me, vuoi che magari sono solo un po’ antisociale… non ho nemmeno mai visto Black mirror. Il che non mi impedisce di citartelo ora, lettore scomodo. Non ho infatti mai visto Black mirror se non due puntate che anni fa un amico mi disse “Con il mestiere che fai, non puoi perdertele”. Una di queste due era la celeberrima Arkangel. Episodio diretto da Jodie Foster, fa l’istantanea di un duo, madre single e figlia, laddove la prima inizia a spiare la seconda credendo con questo di espletare al meglio le sue funzioni di genitore “attento”, fino alle sue estreme conseguenze. Si tratta di una storia fiction solo fino ad un certo punto: il nostro mondo è ormai da decenni quello professato da Orwell. Siamo tutti spiati, seguiti, tracciati, ripresi. Tanto su un micro piano famigliare quanto su un macro piano sociale, praticamente nessuno può più sottrarsi al controllo altrui - che vada dal ricevere suggerimenti di acquisto solo perché ho chiesto a Google quante fibre abbiano i nuovi biscotti che ho provato ieri, a non poter saltare la scuola indisturbati perché i genitori alle 8.05 sarebbero già informati dal registro elettronico dell’assenza del figlio in classe. Siamo ripresi dagli smartphone e dalle telecamere presenti ovunque, firmiamo moduli sulla privacy e accettiamo cookies fornendo i nostri dati sensibili, i nostri figli al nido vengono fotografati e messi in chat per rassicurare i genitori che nel frattempo sono in riunione in ufficio. Eppure, se senti parlare gli adulti si professano tutti terrorizzati. Hanno paura di un non meglio identificato “quel che può succedere”, che più è vago e più paranoicizza. Paura degli uomini come potenziali assassini, malintenzionati, stupratori. Paura dei pedofili, degli adescatori, dei rapitori. Paura degli spacciatori, dei maranza con il coltello, dei maniaci. È curioso, vedete: risulta molto più frequente avere un intenso timore di eventualità in fondo piuttosto rare, che non essere portati a preoccuparci sensatamente di qualcosa che meriterebbe la nostra attenzione e prevenzione. Mi spiego: si stima che nel mondo il numero di omicidi l’anno è di 6 ogni 100.000 persone. Peraltro, un dato in diminuzione. Insomma: che io consegnato questo pezzo in redazione, uscendo da casa per andare a pilates, venga uccisa… è una eventualità decisamente remota. Idem per mia figlia piccola che stasera dormirà dalla sua amica nella casa qui dietro. Molto più facile che io muoia in auto, invece - per non parlare della moto. O che un ragazzo o una ragazza si tolgano volontariamente la vita - essendo il suicidio la seconda causa di morte, dai 10 anni d’età in su. Rischi che una geolocalizzazione non potrebbero mai impedire. Te ne parlo oggi lettore scomodo perché è di questi giorni la novità targata Meta: la funzione mappa attivabile su Instagram, che rivela la posizione dell’utente sia in tempo reale che in forma retroattiva . Ora: c’è un tema di privacy, c’è un tema di sicurezza. Senz’altro. Ma c’è anche un tema evolutivo, psicologico, psicanalitico - ossia simbolico, così simbolico che mi permette di chiudere il cerchio e compiere la riflessione a partire da perché non guardo "This is us" a perché non geolocalizzerei mai le mie figlie a che addirittura non ho nemmeno la funzione “Trova il mio iPhone” sul cellulare: non voglio essere raggiunta. Non voglio essere trovata, non voglio sentirmi braccata. Voglio coltivare uno spazio privato che sia interiore o fisico nel quale potermi rifugiare cheta e non raggiunta dal rumore altrui. Affermo con veemenza il diritto di non far sapere dove mi trovo, di non essere rintracciabile, di non dover a tutti i costi allinearmi all’argomento del momento. Non voglio avere necessariamente un’opinione sulle ultime attesissime uscite, non voglio ci si aspetti da me che guardi qualcosa solo perché potrebbe interessarmi , non voglio sapere tramite Instagram se la mia figlia maggiore si trova davvero in centro oppure al parco, perché la verità è che non serve a nulla. Non serve a me, non serve a lei. Mi illuderebbe solo di essere una madre attenta, quando non sarei altro che una madre controllante e banale, che crederebbe di essere un buon genitore disponendo di informazioni che collocano la pargola su un reticolo, mentre ne ignoro i ben più pericolosi effetti collaterali: la morte del diritto alla trasgressione, la morte del diritto alla menzogna, la morte del reale senso delle cose, la morte dell’educazione al ritiro, al silenzio, al deserto della fuga. La smania di esserci, partecipare, far parte dei grandi numeri, consumare gli stessi prodotti, non restare indietro, non essere da meno, non sentirsi alienati, non ammalarci di FOMO, praticare il dovere di dire a tutti i costi la nostra, pubblicare il nostro TikTok trend ci sta pericolosamente allontanando dalla nostra dimensione più intima, lirica, silenziosa, privata. Uno spazio arredato dalla nostra sola presenza, una sospensione dalla frenesia, una tregua dalle percussioni del mondo. Al di là del modo di ciascuno di essere apprensivo, esibizionista, giovane, ingenuo, geloso o maniaco del controllo, io dico questo: tuteliamo le nostre oasi di solitudine, isolamento e uscita dai radar come il WWF fa con gli ecosistemi. Resistiamo all’invasione presidiando delle no-detection zone ove non dimostrare niente, prendersi un tempo, sentire cosa proviamo, pensare con la nostra testa, fare una cazzata, essere brutti, essere sbagliati, essere stupendi pur in assenza di pubblico. Il Sé è quel nucleo caldo di noi che abita e vivifica quello spazio. Temo che ultimamente si faccia tanta fatica a compiere il proprio, a causa dell’estinzione del suo ambiente naturale. È infatti certamente vero che il Sé si sviluppa nell’interazione precoce e reiterata tra individuo e mondo circostante - ma quel “mondo circostante” non sono le app. Sono le relazioni e la loro qualità. Nel relazionarsi agli avatar come se equivalesse a relazionarsi all’Altro, non ve n’è molta.

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Liberi o geolocalizzati? Ecco perché serve resistere all’invasione

Stefania Andreoli