Le Midterm bussano e Donald Trump risponde

Lo stato d’animo, nella sede newyorchese dei Socialisti Democratici Americani, è combattuto. L’ufficio, uno stanzone stretto e lungo al piano terra di un edificio del Lower East Side, è tappezzato di manifesti elettorali pro-Mamdani, e addossati ai muri ci sono ancora scatoloni pieni di ormai inutili volantini che chiedono di votare per il candidato sindaco Zohran. L’entusiasmo per la vittoria ottenuta è palpabile, ma si mescola con la preoccupazione per le contromisure che l’Amministrazione potrebbe adottare. “I sorrisi di Trump a Mamdani nello Studio Ovale erano solo una recita”, mi dice uno degli iscritti, “il Presidente ha colpito molte metropoli governate dai democratici, figuriamoci se non cercherà di colpire qui non ora che questa città è guidata da un socialista”. Alcuni la chiamano “la battaglia di New York”, e l’aspettano come si aspetta la tempesta nella quiete apparente che la precede. La Grande Mela rischia di diventare la linea del fronte nello scontro in corso tra l’America di Trump e quella che gli si oppone. Da queste parti l’Immigration and Customs Enforcement ha già messo a segno alcuni raid, suscitando il panico nella nutrita comunità dei migranti e mettendo in allerta gruppi e gruppuscoli di oppositori, che hanno iniziato ad andare porta a porta per sensibilizzare cittadini ed esercenti commerciali. Organizzazioni come Handsoffnyc organizzano esercitazioni anti-ICE e distribuiscono fischietti per lanciare l’allarme nel caso si avvistino gli agenti. Donald Trump non ha mai nascosto l’intenzione di commissariare di fatto gli amministratori di New York, gestendo la sicurezza a livello federale. Il pretesto è lo stesso utilizzato per inviare la Guardia Nazionale in altre città: contrastare il crimine e rendere più efficace la caccia ai migranti senza documenti. C’è dell’altro, però. La militarizzazione delle città ha anche uno scopo elettorale, e rientra fra le tante mosse adottate dal Presidente per influenzare le elezioni di midterm. Il voto del prossimo novembre è una delle principali preoccupazioni per Trump, e quasi tutto ciò che accadrà nei prossimi mesi andrà letto attraverso questa lente. Susie Wiles, l’influente Capo dello Staff della Casa Bianca, ha detto a The Hill che d’ora in avanti il Presidente farà campagna elettorale come nel 2024. Trump è preoccupato dalle elezioni, e fa bene. Come ha notato David A. Graham sull’Atlantic “se i democratici riconquistassero la Camera o il Senato , potrebbero bloccare il suo programma, avviare procedure di controllo e potenzialmente presentare nuove accuse di impeachment contro di lui”. Negli Stati Uniti è molto difficile che il partito del Presidente in carica guadagni seggi alle elezioni di metà mandato. Negli ultimi decenni è successo solo nel 1998, con Bill Clinton, e nel 2002, con George W. Bush. In quest’ultimo caso i repubblicani ampliarono la propria presenza tanto alla Camera quanto al Senato, ma era passato poco più di un anno dagli attentati dell’11 settembre e l’atmosfera era decisamente straordinaria. Come a mettere le mani avanti, Trump ha riconosciuto questa difficoltà. L’ha fatto con una considerazione un po’ tortuosa: “anche chi ha avuto una presidenza di successo ha subito battute d'arresto. Vedremo cosa succede. Dovremmo vincere. Ma, sapete, statisticamente è molto difficile vincere. Sì, non ha molto senso". Il senso è questo: meritiamo di vincere, ma siccome al midterm chi governa non vince mai è possibile che questa ineluttabilità statistica annulli il vantaggio di cui godiamo. Il problema è che in realtà in questo momento Trump non gode di alcun vantaggio, almeno a giudicare dai sondaggi di gradimento. L’apprezzamento per il Presidente è decisamente basso, e non c’è motivo di credere che possa risollevarsi in maniera considerevole nei prossimi mesi. Tranne che in alcuni settori, i prezzi al consumo negli Stati Uniti sono in aumento, o comunque restano molto alti. A breve i dazi voluti dalla Casa Bianca potrebbero esercitare effetti sul costo della vita maggiori di quelli già avuti. Ai suoi tempi Biden cercò di convincere i cittadini che la situazione economica non era quella che potevano osservare aprendo il proprio portafoglio, ma quella descritta nei grafici degli analisti. Non ci riuscì, e adesso chi è venuto dopo di lui rischia di commettere lo stesso errore. Trump – che probabilmente cita il suo predecessore più di quanto abbia fatto qualsiasi altro presidente in passato – sta cominciando ad assomigliare a Biden anche per la frequenza con cui si appisola. Per alcuni dipende dai post scritti e condivisi su Truth fino a tarda notte, ma qualunque sia il motivo di certo non aiuta a guadagnare consensi. I democratici, che pure hanno i loro problemi, ci sguazzano. I democratici, che pure non sono estranei allo scandalo, sguazzano pure nella vicenda di Jeffrey Epstein. Inflazione, caso Epstein, età che avanza: ammesso che l’anatomia consenta di avere più di due talloni di Achille, Trump ne possiede almeno tre. Quattro, se ci mettiamo anche l’impegno in politica estera che tanto innervosisce la base del movimento MAGA. In questo periodo, infatti, il Presidente si trova a combattere su due fronti, e non c’è motivo di pensare che la situazione possa cambiare a breve. Da una parte l’ovvia e non sempre efficace opposizione dei democratici, dall’altra quella spesso più strisciante dei trumpiani ortodossi. A irritare la base repubblicana, al di là del carovita da cui comunque non è esente, è stata la resistenza opposta dalla Casa Bianca alla diffusione dei file relativi al caso Epstein, ma soprattutto la smania da sedicente peacemaker ostentata da Trump nel maneggiare le principali crisi internazionali aperte in giro per il mondo. Dall’Ucraina al Medio Oriente, l’idea dei MAGA è che ogni sforzo indirizzato all’esterno dei confini nazionali pregiudichi l’impegno che dovrebbe essere dedicato ai cittadini americani. Per non parlare del Venezuela: il tentativo di Trump di spacciare le operazioni in corso nei caraibi come una versione delocalizzata della lotta al traffico di droga non ha convinto del tutto chi avrebbe dovuto essere rassicurato. Le difficoltà del Presidente avvicinano il momento in cui nascerà una destra trumpiana orfana di Trump. Nel partito c’è già chi comincia sgomitare, a smarcarsi, ad alzare la testa per farsi notare, e se Trump dovesse perdere il midterm questo processo guadagnerà abbrivio. È anche per questo che Trump deve vincere le elezioni, o per lo meno limitare i danni, e ottenere un buon risultato è talmente importante per lui che potrebbe provare a farlo anche con metodi non proprio ortodossi. In un ordine esecutivo firmato a marzo Trump ha reso più complicate le procedure di registrazione e di voto, colpendo così indirettamente soprattutto l’elettorato che pende a sinistra. Il provvedimento è stato bloccato in tribunale, ma le nuove regole potrebbero essere introdotte per altre vie o adottate a livello locale dai singoli stati. L’Amministrazione ha sostanzialmente smantellato la Cybersecurity and Infrastructure Security Agency, nata anche per rendere le procedure elettorali impermeabili alle influenze esterne. Ora interferire nel voto potrebbe essere più facile per attori stranieri malintenzionati. Il gerrymandering, cioè il procedimento con cui si ridisegnano i distretti elettorali in maniera da avvantaggiare un partito, non è una novità nel sistema politico americano, ma in questi mesi i repubblicani lo stanno utilizzando con particolare fervore. Trump ha cercato di applicarlo, a vari livelli e con alterne fortune, in Texas, North Carolina, Missouri, Florida, Kansas, Ohio, Nebraska e Indiana Il Presidente ha promesso di eliminare il voto per posta e le macchine per il voto automatico, che ha definito “decisamente controverse”. Su Truth ha aggiunto: "Se facciamo queste due cose conquisteremo altri cento seggi". L’obiettivo non sono solo gli scranni, ma più in generale minare la credibilità del processo elettorale, creando una situazione di incertezza diffusa in cui tutto diventa possibile. Mother Jones, magazine vicino al mondo della sinistra progressista, ha ipotizzato uno scenario plausibile per l’election day del novembre 2026: “immaginate che la situazione sia questa: il controllo della Camera non viene deciso la notte delle elezioni del 2026. L'equilibrio di potere dipende da una o più gare testa a testa in California, gare che possono richiedere un conteggio lungo settimane. Trump denuncia brogli diffusi, avanzando false affermazioni sull’eliminazione fraudolenta delle schede e sul voto degli immigrati senza cittadinanza. Il Presidente fa pressione sullo Speaker della Camera Mike Johnson – che nel 2020 ha votato contro la certificazione dei voti elettorali in Arizona e in Pennsylvania e ha sostenuto il procedimento legale volto a ribaltare il risultato in quattro stati contesi – affinché non certifichi la vittoria di alcun democratico nelle sfide controverse. Mentre la Camera è ancora controllata dai repubblicani e prima che venga scelto il suo successore, lo Speaker convince l’aula a bloccare i membri della delegazione della California, gettando così l'organismo nel caos”. Può sembrare esagerato, ma in fondo non è molto diverso da quello che i trumpiani hanno fatto, o cercato di fare, nel 2021. Secondo i democratici anche la militarizzazione delle città americane potrebbe avere scopi elettorali: federali e Guardia Nazionale non verrebbero schierati solo per contrastare il crimine e l’immigrazione illegale, ma anche per creare la sensazione di un’emergenza in atto e fornire all’Amministrazione un vasto apparato di controllo e di repressione del dissenso. “Quando penso al 2026”, ha scritto Graham, “più che i rischi di lasciarmi andare all’immaginazione mi preoccupano i limiti della mia fantasia”. Comincia un anno interessante, da questa parte dell’Oceano.

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Federico Leoni