Caso Cucchi, Corte Appello su depistaggi: "Carabinieri hanno fornito versione di comodo"

Cronaca

Bugie, omissioni ed atti falsificati nella vicenda processuale per la morte di Stefano. I giudici d’appello hanno ricostruito anni di depistaggi, individuando chi ne fu artefice e chi scelse di obbedire

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Non fu un errore né un equivoco, ma una scelta precisa: si depistò per interesse personale, per difendere la carriera o per ottenere piccoli vantaggi. Così hanno stabilito i giudici della seconda sezione della Corte d’Appello, che hanno ricostruito come le lunghe operazioni di copertura sulla morte di Stefano Cucchi - il giovane deceduto dopo le percosse subite dai carabinieri nel 2009 - si siano protratte per anni con l’obiettivo di proteggere l’Arma dalle proprie responsabilità. Tra gli otto militari coinvolti tra il 2009 e il 2015, la Corte ha individuato due figure chiave: il generale Alessandro Casarsa, indicato come l’artefice del depistaggio principale volto a mascherare le reali cause delle sofferenze di Cucchi dopo il fermo, e il sottufficiale Francesco Di Sano, che pur avendo visto le condizioni del ragazzo firmò un documento falso in cui si attribuivano i dolori a presunte patologie inesistenti.

Il ruolo dei militari nel depistaggio

Nelle motivazioni i giudici spiegano che Di Sano: "aveva avuto la chiara percezione di un detenuto ridotto male" ma preferì non assumersi responsabilità. Per convenienza, per timore di conseguenze disciplinari o per cieca obbedienza ai superiori, finì per contribuire a sviare le indagini. Davanti alla Corte, assistito dall’avvocato Giorgio Carta, ha dichiarato di aver agito in buona fede, ma la sentenza sottolinea: "la buona fede invocata non è altro che un richiamo alla sua obbedienza e alla mancanza di iniziativa personale". La stessa linea del pm Giovanni Musarò: "Di Sano ha consentito alla redazione di un atto falso ritenendo più utile per sé piegarsi all’illecito piuttosto che opporsi". La pena stabilita è stata di dieci mesi. Diversa e più articolata la posizione di Casarsa, difeso dall’avvocato Carlo Longari: secondo i giudici "era interessato a diffondere verità di comodo sulle condizioni di salute di Cucchi per orientare altrove le indagini", ma la sua testimonianza in aula è stata giudicata lacunosa e non credibile. Al processo, accanto alla sorella Ilaria Cucchi con l’avvocato Fabio Anselmo, si è costituito parte civile anche il Ministero della Difesa.

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