A 10 anni da Alan Kurdi contare i morti in mare resta difficile

Dieci anni fa, il 2 settembre 2015, la fotografia del piccolo Alan Kurdi senza vita su una spiaggia turca fece il giro del mondo. Un bambino di 3 anni, di origini curdo-siriane, in fuga dalla guerra in Siria verso l’isola greca di Kos con la mamma e il fratellino. Quel corpo riverso sul bagnasciuga, su tutte le prime pagine dei giornali grazie allo scatto della fotografa Nilüfer Demir, divenne il simbolo di un dramma collettivo, la crisi dei rifugiati, e costrinse l’opinione pubblica a guardare in faccia la tragedia che ogni giorno si consumava alle porte d’Europa. Potessimo raccontare che in dieci anni non ci sono più state morti in mare come effetto delle nuove politiche migratorie lo faremmo, perché sarebbe un’enorme notizia. Invece, dal 2014, anno in cui è stato attivato il progetto Missing Migrants da parte dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni , sono state registrate almeno 32609 vittime di naufragi sulla rotta del Mediterraneo centrale, tra le coste del Nord Africa e l’Italia. Numeri che sottostimano la reale mortalità del nostro mare. Come racconta il giornalista Luca Misculin nel suo “Mare aperto” , “Chiedete a una persona che lavora nel soccorso in mare nel Mediterraneo quanti potrebbero aver fatto la stessa fine, e quale potrebbe essere una stima più realistica dei migranti morti in mare in questi anni: vi risponderà con uno sguardo atterrito”. Questo succede perché “Se in un certo naufragio non si è salvato nessuno, quel naufragio non viene registrato. Nel Mediterraneo centrale capita molto piú spesso di quanto crediamo”, scrive ancora Misculin, riportando la storia di una bambina avvistata in mare e soccorsa nel dicembre del 2024 dalla barca a vela dell’ong Compass Collective, che stava passando di lì per caso. La bambina raccontò di essere partita dalla Libia con altre 45 persone, ma se lei non si fosse salvata di quella partenza e quel naufragio non avremmo saputo nulla. E anche se solo una parte ridotta degli ingressi irregolari in Europa avviene via mare , è qui che si concentra la grande maggioranza dei decessi, a causa delle condizioni estreme dei viaggi, tra imbarcazioni di pessima qualità, sovraffollamento, equipaggi inesperti, mancanza di attrezzature di sicurezza. Va ricordato poi che la maggior parte delle stime che vengono citate negli articoli e dai media parte dal 2014, ma i viaggi in mare sono cominciati molto prima. E dove sono i dati? In uno studio del 2015 pubblicato nel volume “Fatal Journeys: Tracking Lives Lost during Migration”, a cura dell’OIM, i ricercatori Tamara Last e Thomas Spijkerboer della Vrije Universiteit di Amsterdam notarono che “in un'epoca di sorveglianza digitale e controlli di frontiera high-tech, le morti dei migranti rimangono largamente invisibili ai sistemi ufficiali di monitoraggio”. Le stime disponibili prima di Missing Migrants cambiavano a seconda delle fonti: l'organizzazione UNITED for Intercultural Action ha documentato 17.306 casi di morte dal 1993 al 2012, mentre il blog Fortress Europe del giornalista italiano Gabriele Del Grande riportava 19812 vittime dal 1988 al 2014. Questi numeri vennero usati da un team di giornalisti internazionali per il progetto The Migrants Files, il primo tentativo di data journalism per riportare su una mappa i naufragi del Mediterraneo, ancora prima che le Nazioni Unite decidessero di farlo. Nel sito si legge che i giornalisti avevano cominciato a raccogliere dati a metà del 2013 “dopo aver constatato che non esisteva alcun database utilizzabile sulle persone morte nel tentativo di raggiungere o rimanere in Europa”. Quel lavoro permise a centinaia di testate giornalistiche, artisti, Ong, attivisti e governi di rendersi conto che la rotta del Mediterraneo aveva trasformato il mare in un cimitero. Nella loro analisi i ricercatori di Amsterdam sottolineano anche come l'agenzia europea Frontex non includa dati sulle morti nei suoi rapporti annuali delle attività di controllo alla frontiera. Ciò che sembra contare, per Frontex, è solo l’attraversamento illegale, che è comunque reso tale dalla mancanza di una possibilità di ottenere lo status di richiedenti asilo nei Paesi di partenza. E questo silenzio, secondo i ricercatori, contribuisce alla "neutralizzazione e legittimazione delle morti legate alle frontiere". Documentare il numero di morti è invece fondamentale per comprendere la portata del fenomeno, ma anche individuare i fattori di rischio, migliorare le politiche per prevenirlo e garantire diritti umani fondamentali, inclusa la possibilità per le famiglie di conoscere la sorte dei propri cari. È ormai provato che la presenza di organizzazioni non governative in mare, con navi di soccorso, non sia un pull factor, cioè un fattore di attrazione e di incentivo alle partenze, ma un fondamentale presidio di soccorso e di testimonianza delle violazioni dei diritti umani commesse anche dalla cosiddetta guardia costiera libica, così come documentato da Matteo Villa, ricercatore di Ispi, con uno studio pubblicato nel 2020, e poi confermato da una ricerca pubblicata nel 2024 sulla rivista scientifica Scientific Reports: come già aveva fatto Villa, il paper evidenzia che i fattori maggiormente legati alle partenze di migranti sono la presenza di conflitti, le condizioni meteo e il prezzo di alcuni beni, tra cui il petrolio. Dieci anni dopo il naufragio che ha coinvolto il piccolo Alan Kurdi e altre 11 persone che erano con lui, resta ancora la necessità di contare e documentare le vittime delle rotte migratorie. “I numeri hanno il potere di catturare l'attenzione”, scrivono gli autori del volume pubblicato dall’OIM, “e, sebbene il conteggio delle morti legate al confine rimarrà sempre una stima, servono a rendere concreto qualcosa che è stato lasciato vago e indefinito, e soprattutto ottenere risposte politiche efficaci”.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

A 10 anni da Alan Kurdi contare i morti in mare resta difficile

Donata Columbro