Maschi del futuro: come educare al consenso fin dall'infanzia

“Una grande conquista del femminismo è stata rendere obsoleta l’idea che il maschile fosse il genere di default, mentre il femminile l’eccezione. Adesso gli uomini stanno scoprendo che anche la loro identità è stata costruita da anni di stereotipi e i ruoli patriarcali stanno scricchiolando. Per questo ho pensato che fosse necessaria una guida, pure per i maschi”. A parlare è Francesca Cavallo, attivista e scrittrice che, con i racconti di “Storie della buonanotte per bambine ribelli”, edito nel 2016, ha rivoluzionato il modo di intendere la donna. “Ma poi mi sono accorta che quel lavoro lì non bastava più. Se si vogliono cambiare le cose – ci dice Cavallo – bisogna farlo insieme e quindi era necessario parlare anche ai maschi”. Così nel 2024 esce “Storie spaziali per maschi del futuro”, dodici fiabe illustrate con un solo obiettivo: cambiare la narrativa intorno al genere maschile. Il libro è solo una piccola parte del nuovo progetto di Cavallo, che si compone anche di un podcast e di una newsletter, “Maschi del futuro”, con i quali l’autrice cerca di scardinare stereotipi sessisti e comportamenti tossici. Insieme a Francesca Cavallo abbiamo parlato di come si possa intendere in modo innovativo il maschile, del perché i maschi etero sembrano essere allo sbando e di come si possa avere speranza in un futuro in cui il patriarcato sia superato. Francesca Cavallo, qual è stato il motivo che l’ha spinta, dopo il successo di “Storie della buonanotte per bambine ribelli”, a trattare la questione maschile? Come e perché sono nate le “Storie spaziali per maschi del futuro”? Le motivazioni sono arrivate dai genitori che acquistavano “Storie della buonanotte per bambine ribelli” e poi mi chiedevano: “E per i maschi?”. All’inizio quella domanda mi irritava, perché pensavo non ci fosse nulla di nuovo da dire e rispondevo che i bambini potevano leggere il libro per imparare a immedesimarsi in storie dove non erano protagonisti. Col tempo, però, ho capito che dietro c’era un bisogno reale: offrire ai maschi modelli diversi dal principe azzurro o dal supereroe, figure che li raccontano quasi sempre come eroici, aggressivi e incapaci di emozioni. Una frase che Lei ripete spesso è: “Il patriarcato non deve essere preso a cazzotti, ma reso obsoleto”. Può spiegarci cosa intende? Io credo che tutto ciò che prendiamo a pugni finisca per rafforzarsi. Molti anni fa praticavo Tai Chi e ricordo un esercizio con il mio maestro: si mise fermo e mi invitò a spingerlo con tutta la mia forza. Nonostante i miei sforzi, lui rimaneva immobile, alimentato dall’energia che io stavo scaricando contro di lui. Poi, con un semplice cambiamento di inclinazione del corpo, mi fece perdere l’equilibrio e caddi. Quell’esperienza mi ha insegnato che non sempre serve opporre una forza uguale e contraria. A volte basta un piccolo spostamento di paradigma: anche un millimetro, con una frazione della forza, può portare al ribaltamento completo. È questo lo spirito, anche strategico, che anima “Maschi del futuro”: non proporre una chiave di lettura opposta al patriarcato, ma radicalmente diversa, capace di mostrare un’alternativa. Il mio sogno è che un giorno il patriarcato appaia come qualcosa di superato. Che guarderemo le foto di governi composti solo da uomini con lo stesso stupore con cui oggi osserviamo i vecchi costumi interi dei nostri nonni: una curiosità d’altri tempi, che ci farà chiedere “chissà come gli sarà venuto in mente”. “Not all men, but always a man”: alla luce del suo lavoro con il maschile, cosa ne pensa di questa frase? Tutti gli uomini dovrebbero sentirsi responsabili della violenza di genere? C’è del vero nell’affermazione “not all men, but always a man”. I dati lo dimostrano: il 95% della popolazione carceraria in Italia è composta da uomini. È un fatto che gli uomini siano molto più inclini a commettere atti di violenza. Il problema, però, è come viene usata questa espressione. Da un lato ci sono uomini che dicono “non tutti gli uomini” per togliersi la responsabilità di un fenomeno sistemico. Dall’altro, alcune aree del femminismo rispondono “sempre un uomo”, per ribadire che la responsabilità non è nostra ma loro. In entrambi i casi, però, si finisce per fare lo stesso gioco: scaricare la responsabilità su qualcun altro, senza guardare al problema della violenza come a una questione endemica che riguarda il modo in cui la società è strutturata. Per me è molto più utile partire dai dati e chiederci: cosa, nell’educazione maschile, rende gli uomini più proni a commettere violenza? Quali aspetti del sistema facilitano o non inibiscono la violenza maschile? Ecco perché dobbiamo assumerci tutti una parte di responsabilità. Puntare il dito contro un “altro” non ci porta lontano. Costruire insieme un’analisi più complessa e soluzioni comuni, invece, può fare davvero la differenza. A questo proposito, Lei si è fatta un’idea del perché gli uomini sembrano essere più inclini alla violenza? La violenza nasce da un intreccio di fattori psicologici, sociali, familiari e culturali: non ha una sola causa né può essere eliminata solo con un lavoro culturale. Possiamo però agire sui fattori di rischio e sull’immaginario collettivo. I modelli maschili proposti da cinema e cultura, dal supereroe invincibile al padre vendicativo, hanno legittimato l’idea della violenza come risposta naturale. Occorre invece offrire nuovi riferimenti, come è stato fatto con le bambine. C’è poi un dato neuroscientifico importante: i bambini maschi nascono con un leggero ritardo nello sviluppo dell’area cerebrale che regola le emozioni. Nei primi anni di vita hanno quindi più difficoltà delle bambine a gestirle e avrebbero bisogno di maggiore sostegno da parte degli adulti. Ma gli stereotipi di genere fanno sì che ricevano meno aiuto: meno incoraggiamento a nominare ciò che provano, meno strumenti per imparare a regolare la frustrazione, la rabbia o la tristezza. Così il divario iniziale non si colma, ma si amplia. Crescono maschi meno alfabetizzati emotivamente, non perché la loro vita interiore sia più povera, ma perché hanno meno linguaggio per esprimerla. È come se dessimo loro una pulsantiera con pochissimi bottoni, che convoglia emozioni molto diverse in un’unica uscita, che spesso risulta essere la sessualità. Non possiamo pensare di sradicare del tutto la violenza, ma possiamo lavorare per ampliare quella pulsantiera: insegnare ai bambini, e agli uomini adulti, a riconoscere la propria vita emotiva, a darle un linguaggio, a gestirla in modo costruttivo. È un lavoro culturale che non basta da solo, ma che può ridurre in modo significativo il terreno su cui attecchisce la violenza. E credo che questo sia un passo fondamentale per immaginare un futuro diverso. In un episodio della newsletter “Maschi del futuro” ha detto che gli uomini eterosessuali sono allo sbando e che, forse, è una buona notizia. Cosa intendeva? Stiamo vivendo un momento di vuoto di modelli: la figura tradizionale dell’uomo che porta a casa lo stipendio e basta è in crisi. Oggi ci si aspetta che i padri partecipino alla crescita dei figli, alla vita domestica, che siano di supporto alle compagne nelle loro carriere. Ma tra il parlarne e il viverlo davvero nella coppia c’è una distanza enorme. Per decenni le coppie eterosessuali hanno seguito binari fissi: matrimonio, figli, ruoli rigidamente divisi. Ora quei binari sono saltati e non esiste più un copione predefinito. È una fase di smarrimento, certo, ma anche un’occasione: le coppie eterosessuali, come già quelle omosessuali, sono chiamate a inventare nuove forme di relazione più libere e paritarie. Cosa consiglia ai genitori di figli maschi? Molte madri mi hanno scritto di essere andate in crisi quando hanno scoperto di aspettare un figlio maschio. Non per mancanza d’amore, ma per la sensazione di non avere strumenti. Maschi del futuro nasce proprio per colmare questo vuoto e trasformare le famiglie in piccoli laboratori di cambiamento: insieme possono diventare una rivoluzione silenziosa ma potente. Ai genitori propongo di rileggere il proprio rapporto con il maschile, che sia con il compagno, con i padri o con i fratelli, e provare a costruirne uno nuovo con i figli. Perché per molto tempo abbiamo considerato l’uomo come “il genere umano” e noi come il “secondo sesso”. Oggi stiamo imparando a distinguere, a mettere maschi e femmine sullo stesso piano. Questa conquista del femminismo non libera solo le donne, ma offre anche agli uomini la possibilità di individuarsi, di riconoscersi come genere e come persone. Gli ultimi fatti di cronaca, dal gruppo Facebook “Mia Moglie” al sito sessista “Phica”, hanno riacceso il dibattito sul tema della violenza di genere e del consenso. Come possono essere interpretate le due vicende? Questi casi ci offrono l’occasione di una riflessione profonda su due aspetti strettamente connessi tra loro. Il primo riguarda la mancanza di maturità emotiva di molti uomini, il secondo riguarda il modo in cui il consenso viene vissuto e interpretato. In questi contesti, il consenso non è semplicemente un principio da rispettare, ma diventa al centro di una fantasia. Quella di riuscire ad aggirarlo, di esercitare un potere forte sul corpo e sulla volontà della persona di fronte a sé. Chi coltiva la fantasia di non dover chiedere esprime in realtà una paura profonda, ovverosia quella di ricevere un rifiuto e di sentirsi minacciato da un “no”. Se internamente l’idea di chiedere equivale a esporsi a un’umiliazione, si sviluppa il desiderio di aggirare il consenso e per realizzarlo occorre avere davanti una persona inconsapevole o incapace di opporsi. Questa cultura, secondo me, affonda le radici nell’infanzia, quando si costruiscono le prime percezioni del rifiuto, della frustrazione e dei rapporti di potere tra generi. Per questo ho voluto raccontare in “Storie spaziali per maschi del futuro” la storia di un giovane pirata che, dopo aver chiesto un bacio alla sua amata, riceve un "no" e sopravvive al rifiuto. Sembrerà paradossale, ma prima non avevo mai incontrato narrazioni in cui il rifiuto fosse vissuto come normale, doloroso ma non come catastrofico. Fiabe e supereroi ci hanno sempre raccontato il contrario: principi azzurri e uomini invincibili non ricevono mai un “no”, e così viene cancellata la possibilità di insegnare che sentirsi rifiutati fa parte della vita e non la distrugge. Per cambiare questa prospettiva, non basta ripetere “no significa no”. Serve costruire le fondamenta emotive: insegnare ai bambini, e anche agli adulti, che il rifiuto fa parte dell’esperienza, che provoca disagio ma può essere gestito, e che l’empatia e il rispetto non sono opzionali.

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Maschi del futuro: come educare al consenso fin dall'infanzia

Benedetta Macchini