Pianosa, viaggio nell'ex supercarcere dell'isola disabitata

Quarantacinque minuti di motonave congiungono l’Isola d’Elba a quella di Pianosa, dove il mar Tirreno si tinge di un azzurro quasi surreale. Su una superficie di 10,2 chilometri, a Pianosa, isola più piatta dell’arcipelago toscano, il tempo e lo spazio sembrano quasi sospesi. Ci sono solo quattro spostamenti al giorno dall’Elba, da due porti diversi, e alle 17 la spiaggia corallina si svuota per prendere l’ultimo traghetto. Per visitare Pianosa, isola disabitata, è necessaria una guida: non è consentito l’accesso all’interno dell’isola senza la presenza di personale autorizzato. Dalla fine degli Anni ’90 Pianosa sembra l’isola che non c’è: non ci sono abitanti, non ci sono scuole, non ci sono auto né farmacie. Né è consentito l'ingresso ad animali. La vita si è dissolta. Non ci sono nemmeno cestini: tutti i rifiuti devono essere portati via. Non aspettatevi nemmeno ristoranti o negozi: c'è un solo bar, e un solo posto per pernottare. La visita dell’Isola, accompagnati dalle guide del Parco nazionale arcipelago toscano, porta alle mura di un ex supercarcere, in quella che fu l’ala di massima sicurezza Agrippa, riaperta al pubblico dopo molti anni nell’estate 2024. Tre le visite giornaliere per 24 complessivi posti disponibili. Lì dentro, tra le pareti bollenti e scrostate, tutto è rimasto agli Anni '90, quando i più efferati criminali le abitavano. Da sanatorio per i malati di tubercolosi a carcere Le finestre e le porte delle celle sono dipinte di blu come il mare fuori. Tra i corridoi, le scritte “docce”, “corpo di guardia”, “passeggio”, le scrivanie traballanti degli agenti e i letti di marmo dei detenuti, tutti in fila. Il carcere di Agrippa, chiuso nel 1998, è stato uno dei più noti penitenziari italiani. Utilizzata come colonia penale agricola fin dal 1858, Pianosa ha visto la costruzione di un primo edificio in grado di ospitare 350 carcerati nel 1864, a seguito di un regolamento approvato dal ministero dell’Interno nel 1863. Meno di dieci anni dopo, l’isola fu divisa in diversi centri di produzione agricola, dislocando i reclusi in piccole comunità. Attorno al 1880, il carcere ospitava circa 960 detenuti. Poi assunse una nuova funzione: dagli ultimi 15 anni dell’800 la Casa Penale di Pianosa accolse i detenuti affetti da tubercolosi, che rimasero fino al 1965, suddivisi in tre strutture: il Preventorio, il Sanatorio e il Convalescenziario. L’isola ospitava i malati di tubercolosi perché la medicina dell’epoca riteneva che l’aria di mare facesse bene ai pazienti: solo in seguito si scoprì che l’aria salmastra non aiutava i malati a guarire, ma al contrario peggiorava le loro condizioni. Prima di giungere a questa convinzione passò quasi un secolo, durante il quale morirono oltre 2300 carcerati. Il terrorismo e la stagione degli omicidi di mafia In pochi sanno che dal 1931 al 1935 fu detenuto sull'isola anche il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini: il carcere accolse infatti anche i prigionieri politici del fascismo e Pertini finì in cella perché "dissidente". Tra la fine degli Anni ’40 e l’inizio degli Anni ’50 del ‘900 venne scoperta la cura della tubercolosi, basata sull'uso di antibiotici: quel luogo non serviva più come sanatorio. Quando arrivarono gli Anni ’70 l’Italia è in balia del terrorismo e delle Brigate Rosse: omicidi e rapimenti sono all’ordine del giorno. Gli arrestati venivano portati nelle carceri, ma suscitavano rivolte e aizzavano gli altri detenuti. Si pensò a una soluzione: rendere l’ex sanatorio di Pianosa un carcere di massima sicurezza prima per i brigatisti rossi, poi – dopo le stragi del ’92 in Sicilia – per i capi della camorra, i boss mafiosi e i reclusi al 41 bis. La colonia penale fu ampliata per volere del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, e negli Anni ‘70 furono costruiti due nuovi padiglioni di massima sicurezza. Un supercarcere in mezzo al mare, da dove fuggire era impossibile, e la detenzione durissima: una fortezza inaccessibile. Pianosa è arrivata ad ospitare circa due mila persone tra popolazione carceraria, guardie penitenziarie, le loro famiglie, le forze dell’ordine, i militari e il personale amministrativo. Il 41 bis e i boss di Cosa Nostra L’ultimo capitolo della Colonia penale è quello del 41bis. Tra il 1992 e il 1997, dopo la strage di Capaci e quella di via d’Amelio che uccisero i giudici Falcone e Borsellino, l’isola ha ospitato i detenuti per reati di mafia. Il generale Dalla Chiesa – ammazzato nel settembre 1982 in un attentato mafioso – volle la costruzione di un alto e lungo muro in cemento armato per dividere l’area abitata dai civili e dalle guardie carcerarie da quella dei detenuti. Il carcere era vigilato 24 ore al giorno da decine di agenti, con divieti di sorvolo e di navigazione nelle acque circostanti. “Sull’isola c’erano una sessantina di detenuti ad alto rischio, tra cui Michele Greco e Pietro Vernengo, boss di Cosa Nostra arrivati direttamente dal famoso carcere palermitano dell’Ucciardone. In una cella c’era anche Nitto Santapaola, capo delle cosche catanesi” e uno dei più sanguinari boss mafiosi di Cosa nostra, racconta la guida mentre nel primo turno di una giornata bollente di luglio entriamo in silenzio nel corridoio del carcere poco prima delle 12. Le condizioni dei detenuti che abitavano quelle celle erano durissime: “Chi come loro era al regime 41 bis non aveva diritto alla televisione, né a carta e penna. Non solo: non poteva guardare nessuno negli occhi, e se gli veniva consentito di uscire dalla cella aveva l’obbligo di camminare sempre a testa bassa. Niente pacchi dall’esterno, lettere solo ai familiari, una visita al mese se concordata. Niente giornali, fornelli e pentole”. Mentre l’ora d'aria era concessa in un microscopico cortile del passeggio di 15 passi per 10. Pianosa diventò così sinonimo di carcere duro per i nemici dello Stato. I soprusi e i maltrattamenti Molti dei detenuti del supercarcere sarebbero stati maltrattati dagli agenti, spesso picchiati e umiliati. Ma nessuno oggi, anche se il supercarcere ha chiuso i battenti 27 anni fa, vuole parlare di cosa succedeva al suo interno. Meno di tutti gli ex agenti penitenziari, che abbiamo provato a intercettare telefonicamente, ma che non intendono rilasciare dichiarazioni sul passato di Agrippa. Tuttavia sono pubbliche diverse testimonianze di ex detenuti che hanno denunciato le "torture" subite: l'ultimo è il collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino, che nel 2019 ha raccontato nell'udienza del processo sul depistaggio per la strage di via D'Amelio: "Nel carcere di Pianosa andavo a colloquio, mi facevano spogliare nudo e c'era la paletta, quella per controllare se c'è ferro, e mi davano dei colpi nelle parti intime. Dopo mi dicevano di guardare a terra e mi davano schiaffi in bocca perché guardavo a terra. Guardavo a loro e mi davano calci con gli anfibi". Scarantino ha anche raccontato di aver quasi smesso di nutrirsi in carcere per via dei soprusi degli agenti: "Mi orinavano nella minestra, mi mettevano le mosche e i vermi che si usano per pescare nella pasta. I primi giorni non me ne accorgevo perché tenevo la luce spenta. Poi la guardia è stata gentile e mi ha detto di accenderla. E allora ho cominciato a non mangiare più. All'inizio pensavo più di 100 chili poi mi sono ridotto a circa 53 chili". Un altro ex detenuto, Matteo Greco, rilasciò una lunga testimonianza sulle condizioni carcerarie. Raccontò così il suo arrivo a Pianosa: "Appena metto i piedi a terra alcuni secondini mi danno pugni e calci… mi sbattono dentro una jeep, batto la testa, mi danno un pugno gridando 'abbassa la testa bastardo'. Poi vengo fatto entrare in una cella d’isolamento, tre metri per due, una branda di ferro massiccio saldata per terra, un lavandino d’acciaio saldato al muro, sopra un rubinetto con acqua salata non potabile. Mi viene ordinato di spogliarmi… a un tratto si scagliano di nuovo come belve assetate sul mio povero corpo, il pestaggio dura alcuni minuti lunghi come un’eternità! Svengo". Anche l'ex carcerato Benedetto Labita, rimasto in carcere per due anni e sette mesi, nel 1992 denunciò di aver subito maltrattamenti e vessazioni da parte degli agenti: raccontò di essere rimasto ammanettato anche durante le visite mediche, e che la sua protesi dentaria e i suoi occhiali sarebbero stati danneggiati e gli sarebbe stata rifiutata la possibilità di farli riparare. Per i maltrattamenti subiti nel 1994 Labita presentò ricorso alla Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo. L'unica donna sull'isola: la storia di Armida Miserere C’è una figura, quella di una donna e professionista tormentata, nella storia del supercarcere di Pianosa: si chiamava Armida Miserere, e nel 1993 divenne la prima direttrice dell’istituto e unica donna su tutta l’isola. Si narra che Miserere, che era nata a Taranto nel 1956, fosse arrivata a Pianosa per cercare personalmente tra i detenuti il mandante dell’omicidio del suo compagno Umberto Mormile, educatore carcerario ucciso nel 1990 in un agguato di 'ndrangheta per strada, mentre guidava per andare al lavoro. Con la fama di una donna dura, corazzata per convivere con rabbia e dolore, restò un solo anno sull’isola, prima di trasferirsi all’Ucciardone, a Palermo, e poi in Abruzzo. Miserere si tolse la vita nella sua abitazione, annessa al carcere di Sulmona, il 19 aprile 2003 sparandosi un colpo in testa. Ha 47 anni e prima di uccidersi lascia una lettera sul comodino in cui parla del tormento che le impedisce di continuare a vivere: “Sono stanca, troppo… Auguro morte e infamia, dolore e sofferenza a chi mi ha dato morte e dolore e sofferenza. … Non mi perdono di aver creduto in un sogno. Non posso perdonare chi quel sogno ha distrutto… Maledetta me e maledetto colui che mi ha uccisa… Non desidero funerali, né lacrime finte. Preferirei essere cremata e buttata al vento. Perché vento sono stata”. Una donna libera, vissuta per 20 anni come una prigioniera tra celle e sbarre. Nel suo diario, tre anni prima del suicidio, scrisse: “Il carcere mi ha preso tutto ciò che avevo”. A Pianosa, racconta la guida, Miserere ripulisce le celle, toglie poster e immagini sacre ‘tanto nessuno di loro crede davvero in Dio’. Il regolamento dice stanze vuote, lei le svuota con le sue mani, di notte, una a una. Si occupa personalmente di incursioni notturne per applicare le regole, mentre molti agenti sono turbati dalla sua presenza. La sua storia è raccontata nel libro “Miserere” e nel film del 2013 “Come il vento”, interpretata da Valeria Golino. Il nuovo "carcere modello" Il carcere chiude definitivamente nel 1998: nel 1997 l’ultimo detenuto lasciò l’isola per essere trasferito “in continente” e contemporaneamente venne istituito l’ente Parco nazionale dell’arcipelago toscano. Il 5 novembre 2009, l’allora ministro Alfano annunciò l’intenzione di riattivare pienamente il supercarcere, ma il giorno successivo l’allora ministra dell’Ambiente Prestigiacomo annunciò che il carcere non sarebbe stato invece riaperto. Tutte le attività del penitenziario sono cessate definitivamente nel 2011, anno in cui è stato interrotto il divieto di sbarco sull'isola. Solo nel 2024 il braccio Agrippa dell’istituto carcerario è stato ristrutturato e aperto al pubblico, con un inaspettato record di presenze: circa sei mila nella prima estate. Oggi l’isola è quasi completamente disabitata: gli unici a viverci sono una ventina di detenuti in regime di articolo 21 provenienti dalla Casa di reclusione di Porto Azzurro all'Elba, che fanno parte di un progetto di rieducazione innovativo: un "carcere modello", quello di oggi, dove i detenuti partecipano attivamente alla vita dell'isola. Sono loro ad accogliere i turisti e servire pranzi nell'unico bar dell'isola, sono loro a sistemare le stanze dell'hotel. Insieme agli agenti della polizia penitenziaria, sono gli unici ad avere libertà di movimento su quel fazzoletto di terra dal passato difficile.

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Giulia Mengolini