Evasione a Poggioreale, cosa funziona e cosa no nelle nostre carceri

Agosto. Fa caldo. Le carceri italiane scoppiano. Immaginate due detenuti giovani, arrivati da un paese straniero, stipati in una cella di un istituto di pena sovraffollato. Sono stati condannati per rapina o comunque reati di microcriminalità. Scavano pazientemente un buco nel muro per uscire, chissà per quanto tempo: settimane? Mesi? Studiano il piano di fuga, compreso come eludere la sorveglianza. Arriva il giorno: il buco viene ultimato. I due sgusciano fuori dalla cella attraverso questo foro, largo abbastanza per far passare le loro figure esili, attraversano acquattati il carcere, scalano un muro di trenta metri e aiutandosi con un lenzuolo filano via. No, non è il remake di “Fuga da Alcatraz”. E’ successo davvero: nella casa circondariale di Poggioreale, Napoli, una delle carceri più affollate d’Europa in una delle regioni con più detenuti in Italia, la Campania, che conta un sovraffollamento del 138 per cento. Molti di questi detenuti hanno poco tempo ancora da scontare, o sono tossicodipendenti, o malati psichiatrici per i quali si potrebbero trovare altre soluzioni che non siano la galera. La fuga dei due aspiranti latitanti è durata una manciata di ore, sono stati riacciuffati quasi subito, uno di loro è persino un richiedente asilo, era scappato – in origine – dalla Siria in guerra, prima di finire sulla cattiva strada. Ad ogni modo, questo apre ancora una volta interrogativi dei quali parliamo, senza peli sulla lingua, con la Provveditrice delle carceri della Campania, Lucia Castellano. Qual è la situazione, a partire da questa evasione che riaccende i riflettori sulle condizioni di detenzione in Campania? La regione Campania è tra le più complesse d'Italia: insieme alla Lombardia e alla Sicilia è quella che ha maggior numero di detenuti. Se noi pensiamo che abbiamo 7.519 detenuti oggi a fronte di una capenza di 5.472, già vediamo che ce ne sono 2.047 in più. Tra l'altro c'è un problema di territorialità della pena perché i nostri ospiti sono quasi tutti campani, quindi a buon diritto devono restare in regione. Ma questo è solo un dato, l'altro dato importante è che di questi 7.519, 2.100 sono reclusi nello stesso posto . Immaginatevi che cosa significhi lavorare in un posto dove sono recluse 2.100 persone, a partire dal tutelarne la salute, tutelarne i diritti fondamentali, l'alimentazione tre volte al giorno, i rapporti con i familiari. Solo per parlare coi detenuti, sono 500 le persone che entrano ogni giorno. Davanti a questo gigantismo, davanti a questa emergenza umanitaria noi dobbiamo fare una riflessione seria. Un'altra riflessione va fatta sul carcere di Secondigliano: sono 1.300 i detenuti di cui 900 del circuito di alta sicurezza. Teniamo presente che cosa significhi essere in un territorio come quello napoletano con una concentrazione di 900 detenuti alta sicurezza di fronte all'avamposto della camorra napoletana, cioè Secondigliano e tutto il territorio che conosciamo lì intorno. Sicuramente una situazione difficile e non da oggi: cosa si fa per migliorarla? Queste sono le complessità che noi ogni giorno affrontiamo. Vorrei però ragionare anche in termini di coesione, di collaborazione, di sguardo sinergico sulle situazioni complesse e noi in Campania questo sguardo ce lo abbiamo. Un esempio: quando c’è stata l’evasione, è bastato chiamare i poliziotti per vederli accorrere da ogni luogo, in pieno Agosto, rinunciando alle ferie. Lo dimostra il rapporto che abbiamo con le Procure e la magistratura di sorveglianza, il terzo settore, le imprese che danno lavoro ai detenuti. Sono aumentati i detenuti che sono ammessi a lavorare alle dipendenze di aziende esterne, superando la prospettiva del lavoro interno al carcere. Abbiamo - credo per la prima volta in Italia - stipulato dei protocolli con le Procure della Repubblica e con le Asl per la tutela della salute dei detenuti e per cosiddetti “eventi critici”, cioè se il detenuto presenta lesioni di qualunque tipo: noi siamo tenuti a realizzare delle azioni precise e velocissime, come le fotografie, la certificazione della coerenza tra quanto detto e quanto visto, e a mandare immediatamente al pm. Non parlo di successi ma di sforzi congiunti e di risposte pronte del personale a questi sforzi. A proposito di personale: ci sono grossi problemi di organico… Certo, esiste un problema di sotto organico. Le 7.519 persone detenute in Campania sono affidate a 3.600 poliziotti penitenziari su un organico complessivo di 4.200. Questi 3.600 poliziotti penitenziari hanno un'età anagrafica elevata: la Campania è un punto di arrivo per chi, magari, ha lavorato al nord tanto tempo per cui quando arriva al sud è a fine carriera, ha tante agevolazioni per cui spesso è legittimamente assente dal servizio. E facciamo i conti con una territorialità spiccata. Quando io lavoravo al nord, incontravo poliziotti un po’ da tutta Italia. Al sud invece non è così. Questo è bene fino a un certo punto perché questa osmosi territoriale così complessa è talvolta un dato negativo. Perché? Perché si è tutti dello stesso territorio, quindi intanto si portano culture sempre dello stesso territorio e poi ci può essere, ci possono essere dei rischi naturalmente. Lei sta parlando di episodi corruttivi? In teoria, bene specificarlo, sì. Ma parlo anche del fatto che non c'è respiro; i luoghi dove ci sono esperienze da tutta Italia, sono in genere posti che “respirano” di più, qui invece c’è un ambiente un po’ stagnante. Rispetto all'anticorruzione noi lavoriamo molto anche con le organizzazioni sindacali, sulla rotazione dei posti di servizio e questo è importante, così come lavoriamo tantissimo sempre insieme alle Procure e alle forze dell'ordine. Il Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Napoli ha organizzato dei tavoli sulla sicurezza degli istituti di pena ai quali partecipano i prefetti, i questori, le forze dell'ordine, abbiamo sistemi anti-drone in tutti gli istituti penitenziari perché il nostro obiettivo è quello di deprivare le carceri dell'entrata di droga e di telefonini, perché quello vanifica qualunque altro serio tentativo di lavorare alla rieducazione e al recupero. Esiste un numero consistente di persone che è quasi vicino al fine pena ma non accede a pene alternative: perché? Su questo ci stiamo interrogando in maniera molto pratica. Abbiamo ricevuto, dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, gli elenchi delle persone che devono scontare non più di due anni di pena, con questi elenchi alla mano abbiamo fatto un lavoro capillare con gli uffici di esecuzione penale. In alcuni casi non possono accedere a pene alternative perché hanno commesso dei reati ostativi; in altri casi, magari non hanno riferimenti sul territorio e qui interviene la Regione Campania che è molto ben rodata con noi. E perché quelli sono ancora in carcere, allora? Perché i tempi sono lunghi, in particolare i tempi delle udienze sono lunghi, e il sistema è difficile da rimettere in moto: ci stiamo provando, sicuramente almeno l'attenzione c'è, il faro è acceso, la macchina si deve mettere in moto con tempi diversi. A settembre incontreremo la magistratura di sorveglianza che è molto recettiva e collaborativa. C'è un altro tema che è quello del territorio. Io sono molto contenta perché nel primo semestre del 2025 la Campania è stata la seconda regione dopo la Lombardia per accesso alle misure alternative. È chiaro che dare una misura alternativa in un territorio campano significa fare conti con un tipo di lavoro che è quasi solo lavoro nero. DIfficile mettere fuori una persona se non c'è lavoro regolare. Ma perché il ricorso alle misure alternative, in generale, è così limitato? Io per sei anni ho fatto il Direttore Generale dell'esecuzione penale esterna, un po' ne so e credo che il problema culturale di questo paese sia considerarli benefici. “Caspita - sento dire - ha scontato quattro anni già è fuori”. In realtà, questo deriva dal fatto che forse noi non siamo in grado di dare alla pena sul territorio la connotazione di pena: in realtà tu in quel momento sei comunque privato della libertà, ma non sei isolato dal contesto. Certo, se viene fatta in maniera solo burocratica è molto confusa con la libertà, quindi conta anche come viene applicata la misura alternativa. Sull’evasione dei due detenuti: cosa ha pensato quando lo ha saputo? E’ stato un colpo: ci stavo rimettendo la salute, è stato un bel trauma e poi ho subito pensato che bisognava riprenderli e ho chiamato i miei uomini e le donne a raccolta. A bocce ferme penso che bisogna lavorare su Poggioreale ma lo pensavo anche prima, bisogna lavorare sul sovraffollamento, bisogna lavorare sulla nostra capacità di osservazione. E’ sempre lo stesso problema, lo sguardo: non può essere un compito affidato soltanto alla polizia penitenziaria, perché la polizia penitenziaria è un pezzo importantissimo, ma c'è il pezzo degli educatori, c'è il pezzo dei sanitari, c'è il pezzo dei giudici, c'è la costruzione di una giornata detentiva che a Poggioreale è difficilissima, non per colpa degli operatori che sono bravissimi, ma per colpa del fatto che 2.100 persone sono 2.100 persone. Cosa gli fai fare con delle strutture ancora con ballatoi? E’ chiaro che restando in stanza, chiusi dentro, possono scavare il buco come hanno fatto. Bisogna allora ribaltare questa cultura, averne meno, innanzi tutto: erano sei in quella stanza, questo posso dirlo, ce ne potevano entrare tre, è chiaro che ammassati lì, che scavano di nascosto, ci mettono dei mesi ma lo fanno, è successo e quindi dobbiamo far sì che non succeda più. Questo è un impegno, naturalmente. Lei teme che qualcuno possa non essere stato fedele all'amministrazione? No, in questo caso non lo temo, non lo temo; posso sbagliarmi, per carità, c'è un'indagine, però mi fido dei miei uomini.

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Gaia Bozza