Carceri, la “resilienza” alla pena come parametro per arginare i suicidi

Il 2024 è ai vertici storici di una tragica classifica: 91 suicidi ed un tasso pari al 14,8 casi ogni 10.000 persone detenute. Secondo i dati disponibili, l’Italia supera la media europea con un numero di suicidi in carcere pari al doppio rispetto agli altri Paesi. Quasi la metà dei suicidi si verificano nei primi sei mesi di detenzione e molti altri ancora a ridosso della fine della pena. Quasi tutti documentano condizioni disumane di detenzione con ridotti contatti umani, rigidi regimi di isolamento, sovraffollamento carcerario e scarsa possibilità di ascolto, con inevitabili gravi effetti sulla salute fisica e psichica della persona. E il rapporto medio tra persone detenute e Funzionari giuridici pedagogici è uno pari a 150 detenuti. Dal gennaio 2024 al maggio 2025, tra 124 persone che hanno perso la vita per suicidio molte erano giovanissime con un’età media tra i 30 e i 39 anni, di origine straniera, in situazione di marginalità sociale. Questi dati interrogano, gridano e denunciano un disagio profondo e spesso dimenticato. La pena, come in molte situazioni viene attualmente vissuta, è sempre coerente con la sua funzione costituzionale di recupero e rieducazione? Quando una persona detenuta si spegne e non ha più alcuna istanza di vita, di speranza e di umanità, che tipo di pena abbiamo inflitto? La nostra Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La sanzione, quindi, non deve annientare, ma deve recuperare alla vita, restituire l’esistenza, ridare un progetto possibile, ammettere un nuovo percorso di libertà e, attraverso il pentimento e il perdono, consentire una nuova reintegrazione simbolica con il patto sociale. E allora che fare per evitare una inammissibile deriva punitiva della pena? Sarebbe necessario considerare la singola persona umana che subisce la condanna nella sua reale dimensione psicologica, relazionale e sociale. L’essere umano dovrebbe essere considerato nella sua concreta fragilità e condizione esistenziale: sono tutti in grado di reggere gli effetti personali della pena senza spezzarsi irreparabilmente? I numeri indicano il contrario e mettono al centro una questione fondativa del significato costituzionale di pena. Quando la condanna viene vissuta con un carico psicologico insostenibile, sino a giungere alla possibilità di atti autolesivi oppure all’estremo atto suicidario, la pena non ha più una funzione di recupero e rieducazione, ma diventa una tortura lenta senza via di ritorno, una definitiva condanna alla disperazione ed un eterno carcere interiore. Per queste ragioni dovrebbe essere valutata, caso per caso, la singola personale “resilienza soggettiva” alla pena, pensata come limite intrinseco e invalicabile della sanzione; come completamento di un criterio costituzionale ispirato dal rispetto della inviolabile dignità della persona umana. La resilienza soggettiva dovrebbe diventare un nuovo parametro coerente con la lettura costituzionale perché riguarda la capacità individuale del condannato di reggere psicologicamente ed emotivamente la pena inflitta. Quando la pena - pur legittima nella sua astratta commisurazione - supera la soglia di tollerabilità della persona concreta, perde il suo carattere umano e diventa, nei fatti, una forma di trattamento inumano e violento. Se ad esempio un soggetto affetto da gravi disturbi psichici o da traumi profondi non è in grado di gestire psichicamente il carcere nelle sue forme più estreme è evidente che la pena ha perso ogni rapporto con la sua finalità rieducativa e provoca un definitivo collasso dell’identità della persona umana in violazione dell’art. 27, comma 3, Cost. La pena non deve quindi trasformarsi in una forma di abbandono istituzionalizzato ma, quale strumento di giustizia, deve rispettare il contesto oggettivo e soggettivo della persona che la subisce, compatibilmente alla sua capacità emotiva e psichica di resistere, di comprendere ed elaborare la sanzione nella sua complessa e traumatica portata afflittiva e rieducativa. Questa visione non è un cedimento buonista e non è da confondere con indulgenza o debolezza. Così come non è un modo di minimizzare la gravità del reato oppure di disconoscere il dolore della vittima. È piuttosto una visione coerente con i principi costituzionali, ancorata a un’idea di giustizia che include, accompagna e ricostruisce. Non si nega, dunque, la necessità di sanzionare chi ha violato la legge ma, nel rispetto dei principi costituzionali, il piano corretto cui ripensare la pena deve essere quello della “misura soggettiva”. Del rispetto della persona anche quando ha sbagliato. Del difficile ma necessario equilibrio tra giustizia e dignità umana e, quindi, anche quello tra resilienza soggettiva e pericolosità sociale, che richiede misure alternative e personalizzate per la tutela della sicurezza collettiva. Una condanna che spegne ogni speranza è dunque una condanna perpetua che non redime ma diventa lenta e inesorabile tortura, fino a implorare il desiderio di morire. In questo modo la legge perde la sua legittimità etica, non è più giustizia, ma castigo che si materializza in una oscura cella oppressiva che diventa sepolcro invisibile, contenitore di persone umane che in silenzio attendono la morte. E se la pena estingue l’uomo, se lo frantuma in silenzio, non resta nulla da rieducare. Una pena che non guarda alla persona, ma solo al reato, rischia di diventare vendetta sociale. La vendetta non rigenera ma distrugge. Può rappresentare soddisfazione effimera, sfogo collettivo, cieca repressione, ritorsione simbolica ma non sarà mai vera giustizia in uno Stato di diritto. Meritorio, dunque, il recentissimo Cdm che affronta di petto il sopraffollamento delle carceri: atteso, necessario, umano.

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Carceri, la “resilienza” alla pena come parametro per arginare i suicidi

Giovanni Reho