Sui social attivisti climatici sotto attacco: molestie e diffamazione

Essere un attivista climatico oggi, e farlo pubblicamente e senza sosta attraverso i social media, significa affrontare una sfida che va ben oltre la capacità di comunicare o di raggiungere un pubblico. Significa esporsi a un’ondata costante di attacchi, molestie e campagne di disinformazione che non si fermano al mondo digitale ma finiscono spesso per contaminare la vita reale. A evidenziarlo è un sondaggio globale condotto da Global Witness: l’organizzazione ha raccolto le testimonianze di centinaia di difensori della terra e dell’ambiente in tutto il mondo, fotografando un panorama di abusi sistematici che rischiano di silenziare le voci più impegnate nella crisi climatica. E di trattenere chiunque voglia iniziare un percorso di quel tipo, a favore di una pacifica e anonima autocensura. Molestato il 92% degli attivisti per l’ambiente sui social media Secondo i dati diffusi, il 92% degli attivisti intervistati dichiara di aver subito qualche forma di abuso o molestia online legata alla propria attività. Un dato schiacciante che, al di là del clamore delle percentuali, descrive una realtà quotidiana fatta di minacce, diffamazioni e tentativi di delegittimazione. L’elemento che emerge con più forza è il ruolo dominante delle piattaforme Meta: l’82% di chi ha subito abusi riferisce di essere stato preso di mira su almeno uno dei social di proprietà del gruppo, tra Facebook, WhatsApp e Instagram. Questo, naturalmente, anche in virtù della loro capillarità e adozione in giro per il mondo. In particolare, Facebook viene indicata dal 62% degli intervistati come la piattaforma più tossica in assoluto, seguita da X , WhatsApp e Instagram . Dalle intimidazioni al “doxxing”, come vengono minacciati gli attivisti Le forme di molestia spaziano dalla diffamazione al “doxxing” - cioè quella pratica che consiste nel raccogliere e diffondere online, senza consenso, informazioni personali e private su una persona, con l’obiettivo di intimidire, minacciare o danneggiare la sua reputazione o sicurezza - fino a minacce di morte e campagne coordinate per screditare e isolare gli attivisti, in questo caso in particolare quelli che si occupano di ambiente. Ma l’impatto non si limita naturalmente al piano digitale. Il 75% dei partecipanti ritiene che gli abusi online abbiano contribuito direttamente a danni concreti nella vita reale, dalle intimidazioni fisiche alla perdita di opportunità lavorative, fino al rischio di procedimenti penali. Il 63% dei difensori che hanno risposto al sondaggio ha inoltre dichiarato di aver temuto per la propria sicurezza, mentre il 45% ha segnalato una perdita di produttività. Mentre il 35% ha riferito di aver ricevuto minacce di criminalizzazione e il 30% ha subito effettivamente arresti o incriminazioni legati alla propria attività, magari a causa di denunce o querele temerarie. Il report evidenzia inoltre una piano parallelo legato alla violenza di genere: quasi un quarto degli attacchi ha una matrice legata al sesso e circa un quinto è motivato dall’identità di genere, con molte donne che segnalano minacce di stupro e molestie sessuali dirette. Alcune testimonianze Le testimonianze raccolte restituiscono il volto umano di queste statistiche. Fatrisia Ain, attivista indonesiana, racconta a Global Witness: “Alcuni account hanno preso selfie dal mio profilo Instagram personale e li hanno pubblicati su gruppi Facebook… diffondendo bugie su di me e facendo “red tagging”. Mi hanno accusata falsamente di avere una relazione con un uomo sposato perché sono una donna attivista non sposata”. Nonostante le segnalazioni ripetute, Facebook ha rifiutato di rimuovere i contenuti, lasciando l’attivista esposta a una campagna di discredito pubblico. Dall’India arriva la voce di Sharanya, che descrive come la violenza digitale si estenda al mondo reale: “Gli aggressori usano lo spazio online come strumento di diffamazione… e poi usano lo spazio offline per minacciarci fisicamente… mettendoci sotto sorveglianza”. Le parole di queste attiviste mostrano come l’esposizione online non sia una semplice scelta strategica per amplificare la propria causa ma una condizione che comporta, praticamente sempre, un prezzo personale altissimo. Fanø, un attivista danese, ha invece riferito di aver ricevuto minacce del tipo ‘se fossi lì, ti investirei con la mia auto’ o ‘ecco perché ho un fucile’. Ho segnalato queste minacce a Facebook, che ha detto che avrebbe indagato, ma non è successo nulla”. “La situazione è allucinante – spiega Mia Canestrini, zoologa, divulgatrice e scrittrice da 108mila follower su Instagram a SkyTG24 Insider - mi è successo di tutto online, per fortuna mai nulla di persona, ma gran parte di ciò che viene riportato dal sondaggio mi riguarda direttamente: dalle denunce temerarie alla perdita di opportunità di lavoro fino alla chiusura della mia pagina Facebook per arginare una campagna d’odio e a un calo drastico di produttività. I dati sono veramente incredibili. A primo impatto non credevo che la situazione fosse così tragica, sinceramente. Però poi se guardo al mio campo, che è relativo alle tematiche ambientali legate alla fauna selvatica, la violenza che si scatena sui social appena qualcuno ha un’opinione diversa dalla tua o è convinto di avere opinioni più forti ha effettivamente dell’inspiegabile. Fra l’altro una denuncia per diffamazione mi è arrivata, e l’ho vinta, ma mi è costata naturalmente la parcella dell’avvocato. E anche io naturalmente ho querelato – ma fondatamente - due persone per diffamazione, perfino in un contesto di “guerra fra pseudo-influencer” che ha dell’incredibile. Più in generale appena ti esponi, nel mio caso sulle tematiche relative per esempio al lupo, alla falconeria, agli allevamenti si scatena l’inferno. Se leggi i commenti sotto a un mio video in cui parlo semplicemente delle abitudini notturne dei lupi ti rendi conto che siamo alla follia pura. Poi sempre per questi contrasti fra pseudo-influencer, come dicevo, ho dovuto chiudere la pagina Facebook perché la diffamazione nei miei confronti aveva raggiunto livelli insostenibili. Mi danneggiava più tenere aperto quel profilo che chiuderlo, pur perdendo 18mila follower. Alla fine ho risolto con un metodo brutto, scrivendo chiaro e tondo su Instagram e Facebook che chiunque si fosse permesso di utilizzare mie foto o altri contenuti veicolando messaggi distorti o lontani da quanto sostengo ogni giorno e dunque diffamandomi lo avrei querelato senza alcun passaggio preventivo”. Il problema è aver indebolito la moderazione dei contenuti e il fact-checking indipendente Global Witness punta il dito contro le grandi piattaforme per la loro incapacità, o sarebbe meglio dire mancanza di volontà, di proteggere chi utilizza i social per difendere l’ambiente. Ava Lee, Campaign strategy lead dell’organizzazione, ha per esempio spiegato che “la crisi climatica sta logorando tutti coloro che sono in prima linea nella lotta per la giustizia. E in questo momento, le aziende di social media stanno rendendo più difficile svolgere questo lavoro essenziale, permettendo che odio e molestie allontanino le persone dal movimento. Non deve essere per forza così. Investendo nella sicurezza e nella moderazione dei contenuti, invece di ridurle per compiacere il presidente Trump, e dando priorità ai punti di unione piuttosto che alla divisione, le aziende di social media possono gettare le basi per le importanti discussioni che devono avere luogo, così da poter affrontare le sfide della crisi climatica a viso aperto”. La denuncia riguarda infatti e soprattutto le scelte di Meta in materia di moderazione: come sappiamo, da qualche mese l’azienda ha progressivamente ridotto il coinvolgimento di fact‑checker indipendenti nei diversi paesi, preferendo affidarsi a sistemi di moderazione “crowdsourced” che, secondo Global Witness, non offrono un’adeguata protezione contro la disinformazione e lasciano gli attivisti più esposti di prima a questo genere di attacchi coordinati. Il quadro che emerge è insomma quello di una battaglia che non è solo ambientale, e che si gioca su fatti drammaticamente concreti, ma anche comunicativa. L’attivismo digitale, da alcuni percepito come uno strumento per accrescere l’impatto delle proprie campagne o in certi casi addirittura come strategia di posizionamento , diventa una fonte di rischio e vulnerabilità. I dati del sondaggio di Global Witness mostrano che la visibilità può tradursi in isolamento, che il dibattito pubblico degenera puntualmente in minaccia e che le piattaforme, invece di rappresentare spazi sicuri per il confronto – ma questo non lo sono più da molto tempo - rischiano di amplificare le dinamiche di odio e di silenziamento. Affrontare questa realtà, spiega in chiusura l’organizzazione, richiede investimenti concreti nella sicurezza degli utenti, nella moderazione dei contenuti e nel ripristino di meccanismi indipendenti di controllo, per impedire che chi prova a difendere il pianeta venga messo a tacere dal rumore tossico dei social.

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Simone Cosimi