Selfie death, perché rischiamo la vita per una foto

Prego, scomodati ché parliamo di selfie death. Nel 2013, “selfie” fu eletta parola dell’anno per l’Oxford Dictionary, tant’è che per quanto non disponiamo di un corrispettivo in italiano, non c’è nessuno - dai bambini agli anziani - che non sappia cosa significhi. Ma qual è, il vero significato di qualcosa? E di questa, cosa? Un selfie è la foto che fai a te stesso. Sei tu allo specchio, il tuo manifesto iconografico, la tua candidatura migliore per presentarti ai colloqui di selezione sui social. È l’immagine che scegli per te in luogo dello scatto preso dall’occhio dell’Altro che ti vede, è come ti percepisci tu e come vuoi che lo facciano più persone possibili. È una affermazione di identità, ma non dice - come una fotografia scattata da altri - “Quella persona sono io”, bensì dichiara: Io sono così. Sappiatelo. È conoscersi, non riconoscersi. Forse in altre immagini siamo parsi rotondi o asimmetrici, buffi o distratti , ma un selfie afferma: Badate bene che se io posso essere anche in questo modo - come risulta da un frame, vorrei che fosse per questa posa, per questa espressione, con questo sguardo e questa attitudine che mi teneste presente, che mi comprendeste. Un selfie dice come posso essere alle migliori condizioni selezionate da me più che come realmente sono quando la luce è implacabile, il contesto è brutto, la cornice stonata, il momento sbagliato, la compagnia competitiva, il trucco sbavato, il tricipite appannato, lo sfondo trascurato, il bagno disordinato. Ecco perché ci teniamo tanto. È la foto segnaletica, la fototessera sui documenti contemporanei - ovvero i nostri profili sui social media. Non è stupido, non è superficiale. È un po’ più disperato e tu, lettore scomodo, se sei qui è perché dovresti sapere che non ci si deve mai prendere gioco della disperazione umana, come di tutte le motivazioni profonde per le quali facciamo le cose. Come arrivare a morire per farsi una foto. Dei selfie deaths parliamo da anni, direi da più di un decennio. Le prime volte che i giornali me ne chiesero conto, tempo fa, fu per via dei nostri adolescenti che si immortalavano sui binari a pochi istanti dall’arrivo del treno - non tutti facevano in tempo a rimettersi in sicurezza. Parve subito un fenomeno generazionale: ah, i soliti ragazzi cerebralmente ancora immaturi che non tengono insieme la causa e l’effetto, che sottostimano il pericolo, che si inventano nuove prove di coraggio da quando noi adulti abbiamo cancellato loro ogni rito di passaggio per l’adultità, che esorcizzano la morte esponendo il loro corpo pubere alla vertigine della fine, da che hanno abbandonato il soma infantile onnipotente dei bambini che non muoiono mai, che non possono perire, che sanno che la mamma di Bambi viene uccisa - ma loro no. … Balle. Gli scatti della morte non sono un dominio adolescenziale. La cronaca, purtroppo, riferisce non di rado anche di adulti che cedono alle lusinghe dell’altezza, di un punto panoramico, di un dirupo, di una cascata. Per il Premio Nobel Daniel Kahneman si tratta dell’entrata in circolo del cosiddetto “sistema uno” del pensiero umano, il livello istintivo e immediato di decisione che ci fa agire senza soppesarne le conseguenze, anche a rischio di esporci alla morte. La teoria psicologica dei Big Five che mette a fuoco i cinque criteri di definizione del carattere, direbbe di una predisposizione per l’incoscienza che alcuni hanno e altri no. Io direi una cosa diversa: mi pare infatti di intravederlo eccome, il pensiero del prima per il dopo. La valutazione delle conseguenze. Sì, perché un selfie non finisce lì: se non viene postato, non esiste. Se resta nella galleria del nostro telefono non è che guardarsi da soli allo specchio, viene totalmente spogliato della sua funzione. Così, mancare di considerare il pericolo di perdere la vita temo sia un pensiero assente alla base dei selfie deaths non tanto perché non se ne valutino le ripercussioni, quanto perché il dopo al quale si pensa è il riconoscimento che verrà dai followers: è su come viene accolto dal pubblico, che si gioca la riuscita di un selfie. Cuori, commenti, apprezzamento, condivisione sono diventati l’equivalente della popolarità, dell’invito alle feste, dell’ingresso facile nel locale che conta, della reputazione . Mentre pare che sia solo una foto, è di più: un feticcio, un avatar piazzato al nostro posto per continuare a segnalare che ci siamo anche in contumacia, mentre siamo costretti a scuola, al lavoro, a dormire. A vivere. Temo che risultino per alcuni - per molti, forse - ottime ragioni per sfidare la morte. Ché anche perdere la vita per una foto sensazionale, diventa un’istantanea fuori dall’ordinario. Ne scrivo perché gli scorsi giorni una quindicenne è stata schiacciata in modo fatale da un pesante masso che si è staccato da un terreno franoso e cedevole mentre con le amiche vi si arrampicava, pare, proprio per farsi delle foto. Non so se però in quel caso si possa parlare opportunamente di selfie della morte, in verità. Mi parrebbe di avere ricostruito che non trovandosi a Yosemite , l’accaduto possa piuttosto essere stato una drammatica fatalità, un vero e proprio incidente involontario: sembrava davvero un punto pericoloso? Si era scelto apposta? O la giovane e le due ragazze che erano con lei non potevano prevedere che il terreno avrebbe ceduto sotto i loro piedi, anche a seguito delle recenti e avverse condizioni atmosferiche? Di fatto, dalle prime ricostruzioni è emerso che le tre si stessero arrampicando sulle rocce, ma era segnalato il pericolo di frana? Chi di noi sotto una parete rocciosa farebbe come primissimo pensiero che potrebbe rovinarci addosso? La pietra è la pietra, dai. È un concetto che abbiamo dentro con una certa idea di saldezza. Mi sono dunque affidata alla possibilità che in questo caso andrebbe azzardata la differenza tra lo sporgersi dal 68esimo piano di un grattacielo per cercare lo scatto dell’anno e giocare ad arrampicarsi per poi immortalare il ricordo di un’avventura con le amiche un pomeriggio di mezza estate. L’esito purtroppo non cambia, ma il racconto appartiene a generi diversi. Ché l’analisi puntuale degli eventi, l’attribuzione dei nomi con i quali catalogarli e la distinzione in categorie di intenzione e di senso, a me risulta l’unico modo per non far perdere dignità a chi vive, a chi muore e a chi tentando di vivere, muore.

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Stefania Andreoli