Nazionalizzazione vs cessione: quale futuro per l’ex Ilva

Nazionalizzare. Per i sindacati, e non solo per loro a dire il vero, non c’è altra via per salvare l’ex Ilva. Riportare il più importante gruppo siderurgico italiano sotto il pieno controllo dello Stato è il nuovo mantra dei rappresentanti dei lavoratori, soprattutto a Taranto, dove l’acciaieria più grande d’Europa, che decide da sola le sorti dell’intero gruppo, è ormai quasi ferma. Ma il Governo, al contrario, continua a battersi per la privatizzazione, inseguendo anche vecchie proposte di acquisto finite da tempo in soffitta. E per prendere tempo, pensa ora all’ennesimo “salva-Ilva”, un decreto legge che da un lato inietti nelle casse dell’azienda preziose risorse finanziarie e dall’altro predisponga un accordo di programma che dovrà fare i conti, però, con il nuovo sindaco di Taranto, che in campagna elettorale, sul futuro del siderurgico, ha espresso posizioni che appaiono lontane da quelle dello stesso Governo. Decreto o nuovo prestito? Duecento milioni: a tanto ammonterebbe la nuova provvista finanziaria ipotizzata dal Ministero dell’Economia per l’ex Ilva. La formula, quasi obbligata, è quella del decreto ad hoc, che viene preferito all’estensione del prestito ponte già accordato nel luglio dello scorso anno dalla Commissione Europea. Nel nuovo provvedimento, ci sarebbe ovviamente anche spazio per la questione occupazionale, ed in particolare per il nodo della cassa integrazione, arrivata a coinvolgere poco più di 4000 dipendenti, 3500 soltanto nello stabilimento di Taranto. Queste nuove misure preparerebbero il terreno all’accordo di programma necessario per ottenere la nuova Autorizzazione Integrata Ambientale, una sorta di patente per far marciare gli impianti, ed avviare il processo di decarbonizzazione. Il nodo rigassificatore Il punto chiave dell’accordo di programma si chiama rigassificatore, termine entrato a pieno diritto nel vocabolario della recente campagna elettorale di Taranto. Parliamo di un impianto che serve per portare allo stato gassoso il gas naturale liquefatto che arriva attraverso navi speciali, pronto quindi per essere usato nella transizione energetica che dovrebbe permettere al siderurgico di liberarsi progressivamente del carbone, con tre forni elettrici e un impianto di preridotto di ferro. Per il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, che per conto del Governo sta seguendo il dossier ex-Ilva, il futuro green dell’acciaieria di Taranto non può prescindere da questo impianto, una posizione sulla quale sembra essersi allineata anche la Regione Puglia, che proprio con Emiliano ha iniziato a battere per prima, e in tempi non sospetti, sulla decarbonizzazione. Non si può dire lo stesso, invece, del Comune di Taranto; il candidato del centrosinistra Piero Bitetti, nel ballottaggio che lo avrebbe poi “incoronato” sindaco, ha incassato un accordo elettorale con il Movimento 5 Stelle che aveva tra i suoi presupposti proprio il No al rigassificatore. La privatizzazione In attesa di capire se e come si riuscirà ad arrivare ad un accordo di programma condiviso, il ministro Urso continua, comunque, a lavorare per la vendita del gruppo. Le quotazioni degli azeri di Baku-Steel, che sembravano rimasti gli unici interlocutori del governo, sono in netto ribasso. L’incidente del 7 maggio, che ha dimezzato la produttività del sito di Taranto, costretto ora ad alimentarsi da un solo altoforno, ha inevitabilmente raffreddato l’interesse degli azeri, che comunque nel “pacchetto” inserirebbero necessariamente quella nave rigassificatrice che ancora non si sa se potrà entrare o meno nel porto di Taranto. Ed ecco allora tornare sul tavolo offerte che sembravano accantonate, a partire da quella di Bedrock, un fondo statunitense che si farebbe preferire agli indiani di Jindal. Le loro eventuali nuove offerte, tuttavia, già considerate basse mesi fa, risentirebbero necessariamente, anche dal punto di vista occupazionale, delle ultime vicende che hanno reso decisamente meno appetibile il sito di Taranto, cuore pulsante del gruppo.

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