Generazione AnZia, come si supera l'ansia e la paura del giudizio altrui?

Come faccio a superare l'ansia da prestazione? E la voglia di controllare tutto? Come posso convivere con me stesso? Sono solo alcune delle domande che un gruppo di ragazze e ragazzi tra i 15 e i 16 anni si è posto. Domande che riflettono le paure, i timori, i dubbi di una generazione - quella dei più giovani - che si trova ad affrontare problemi legati al benessere mentale. A fornire risposte e punti di vista, in occasione del panel “Generazione AnZia”, condotto dalla giornalista Emanuela Ambrosino e in scena a Live In Milano 2025, l'evento che dà spazio all’attualità, alle sfide globali e al racconto del mondo che cambia, sono stati tre esperti del settore: Stefania Andreoli, psicoterapeuta e scrittrice, Alberto Pellai, medico psicoterapeuta dell'Università degli Studi di Milano, e Stefano Rossi, psicopedagogista. Rispondendo direttamente ai quesiti anonimi di un gruppo di studenti e studentesse del Liceo classico Giovanni Berchet di Milano, hanno esplorato e approfondito una delle tematiche più urgenti del nostro tempo: la salute mentale. Alla prima domanda preparata dagli studenti - “Ho troppa paura di quello che le persone pensano di me e di apparire sbagliata, diversa” - ha risposto Stefania Andreoli. "Vediamo se so rispondere perché questa è una domanda esistenziale, direi. Intanto posso darvi un elemento. Per la mia esperienza è un quesito che avrebbe potuto porre chiunque: questo non per spersonalizzare la domanda e la persona che l'ha fatta, però una cosa che mi sto accorgendo che non fate è che non vi confrontate su quanto possa essere pervasiva questa sensazione di giudizio che riguarda tutti. Alla vostra età c'è una componente anche molto fisiologica legata al momento di vita nel quale vi trovate. Intanto la prima notizia è che sentirsi così è normalissimo. Non ha niente a che vedere con un disagio che tu provi e qualcun altro no, anche se so che la percezione è che gli altri sembrino sempre funzionare meglio di noi. Oggi però è una domanda ancora più importante del solito, perché nella società nella quale ci troviamo il tema del dito puntato, il tema del sentirsi inadeguati è profondamente pervasivo. Perché? Perché - e qui tiro le orecchie ai genitori - di fatto siete una generazione, voi e i millennials, cresciuti con un inganno di fondo, cioè l'idea della performance, l'idea che dobbiate andare bene. Mentre la vita e l'adolescenza in particolare in realtà è fatta per andare malissimo, per sbagliare tutto, per fare un sacco di casino, per scontentare gli altri. E quindi forse sei un po' più giusta di quanto non pensi". Un altro studente chiede: “Come faccio a convivere con me stesso?”. La risposta di Alberto Pellai. "Questa è una domanda bella, interessantissima, soprattutto per come è posta. La domanda del convivere, 'come faccio a vivere con me', è un po' come trattarsi come un coinquilino di casa propria: ci sei tu e poi c'è un altro te stesso che deve coabitare con te. Io credo che, intanto, lo stai già facendo dal primo giorno di vita, stai già convivendo con te stesso. Quindi la domanda potrebbe essere: come sono andate le cose fino ad ora? Come vorrei che andassero? Proverei anche a chiedermi: ma chi è l'altro me stesso che bussa alla porta e che mi chiede di entrare? Che caratteristiche ha? Perché mi spaventa? Perché mi fa sentire in ansia? Oppure perché lo ritengo così difficile da mettere dentro di me in una cosa che noi chiamiamo integrazione? Questa è una domanda che non dobbiamo mai smettere di farci per tutto il tempo della crescita, perché se noi ci fossimo già dati la risposta vorrebbe dire che saremmo fuori dall'età evolutiva e saremmo già evoluti. Il nostro cervello ha invece bisogno ogni giorno di entrare in palestra e di lavorare proprio come se si trattasse dei pesi, cioè di aggiungere muscolatura emotiva e cognitiva proprio facendosi questo genere di domande. Alla fine credo che la prima parola di base sia accogliersi, la seconda sia essere indulgenti ma non in modo autoprotettivo, in modo sfidante. C'è un pezzetto di te che può davvero stupirti perché è pieno di sorprese: vallo a cercare, non tenerlo fuori dalla porta". Alla domanda “Come faccio a non pensare ai voti e a superare l'ansia da prestazione?” ha risposto Stefano Rossi. "Anche questo è un tema gigantesco. Io voglio rispondere da un punto di vista filosofico, perché senza filosofia è difficile capire anche la propria psicologia. Noi siamo in una società in cui l'inconscio è online. Oggi, non solo voi, ma anche noi adulti tendiamo a pensare a noi stessi con le categorie dei social, cioè le metriche. Le metriche sono la nuova divinità del nostro tempo: siamo ossessionati da quanto siamo magri, da quanto siamo belli, da quanto siamo perfetti. E quindi qual è il problema? Ragazzi, voi non siete le vostre metriche. La vostra generazione deve trasgredire a questo imperativo. Non sto dicendo che non dovete impegnarvi a scuola. Anzi, secondo me - e mi permetto di condividere con voi questa piccola lezione d'amore - voi dovete trasformare quello che a volte noi adulti non riusciamo a fare, cioè la cultura tossica del risultato, 'vali se vinci', nella cultura della grinta. Cultura della grinta vuol dire che ciascuno di voi ha un fuoco, voi siete nati con quel fuoco lì, e con quel fuoco voi mettete nel mondo la vostra energia. Ecco, adottare la cultura della grinta vuol dire: mettere il proprio fuoco, mettere se stessi. Se vincete, se prendete un bel voto, bene. Se no, dovete comunque imparare a volervi bene. Nella società della prestazione la cosa più difficile non è solo avere rispetto ed empatia per gli altri, è avere rispetto ed empatia anche per noi. Imparate a volervi bene". Un altro studente scrive: “Come posso superare la voglia di controllare tutto e l'ansia di fare tutto alla perfezione?” Stefania Andreoli: "In questo caso forse mi piace identificare due direzioni diverse che potrebbero prendere le risposte a questa domanda, cioè quanto possa esserci ancora una volta di normale, culturale, sociologico. Jung l'avrebbe chiamato l'inconscio collettivo: tutte le domande sono come un filo rosso, un ago che entra ed esce dallo stesso tipo di tessuto che sta ricamando i contenuti di questa mattina. C'è quest'idea del controllo e della perfezione che è proprio del nostro tempo, è lo spirito, l'aria che stiamo vivendo ora. Non che sia da sottovalutare, ma è un elemento da mettere nel budget, perché c'è. Tutti noi ci facciamo i conti. Mi interessa però mostrare, sapendo che la persona che ha posto la domanda è in platea, il rischio che invece questa domanda possa avere un connotato che merita la nostra attenzione in una forma un pochino più seriosa. Attenzione ragazzi, perché l'idea della perfezione e del controllo è tipica di certi modi di soffrire, che sono per esempio tutti i disturbi che afferiscono alla sfera delle dipendenze, con tutto quel connotato di ossessione e compulsione, a imporsi di essere in un certo modo. Perché? Perché diventa un talismano. Se tutto andrà bene, se io sarò impeccabile, allora non dovrò avere paura di nulla, allora niente mi farà male. Ecco l'inganno. Altra caratteristica pericolosissima del nostro tempo è il bisogno che tutti noi abbiamo di non sentire dolore. Allora l'idea della perfezione e del controllo diventa come una sorta di rituale magico, una sorta di esorcismo, una sorta di – permettetemi - psicofarmaco fatto un po' in casa. 'In questo modo non starò male'. In realtà mi permetto di dirvi - senza farla facile perché non lo è - che al contrario il vero apprendimento, la vera esperienza, il vero raggiungimento del benessere passa attraverso il suo contrario. Cioè la vera performance è il fallimento, la vera performance è l'imperfezione, la vera crescita sta nel proprio 'Daimon' che incontra la perdita di controllo, scoprendo che non si va in pezzi, non si impazzisce e non si muore". Alla domanda “Non riesco ad aprirmi con gli altri, come posso riuscirci?” ha risposto ancora Alberto Pellai. "Non è facile per molti. Tanti hanno questa dimensione dell'apertura spontanea, automatica, dell'essere subito in relazione con gli altri. Ma tanti altri questa dimensione naturale non ce l'hanno: cioè l'altro rimane un mistero, a volte mette ansia, a volte mette diffidenza. Quindi direi che dobbiamo usare due sguardi. Uno è come io guardo l'altro: l'altro per me è sorprendente oppure spaventevole? Se l'altro è sorprendente, è qualcosa verso il cui mistero andare, perché ci sarà dentro qualcosa che mi conquista. Se invece l'altro è spaventevole è qualcosa che mi obbliga a stare in protezione e in ritiro, perché potrebbe accadermi qualcosa che poi mi fa stare male. Quindi la prima domanda da farsi è: che sguardo metto sull'altro? Perché spesso siamo noi i primi a prevenirci dall'incontro con l'altro per evitare di sperimentare dolore o disagio. E su questo bisognerebbe anche riguardare quali storie passate noi abbiamo con gli altri, cioè cosa ci è accaduto incontrando gli altri. I primi in assoluto sono stati i nostri genitori, ma poi c'è tutto un mondo fuori. A volte basta qualcuno che in piscina, nello spogliatoio ci dice una brutta cosa per rendere l'incontro con gli altri qualcosa di spaventevole, drammatico. L'altra cosa è concentrarsi anche sullo sguardo che gli altri mettono su di noi, perché spesso ci sono degli sguardi che sono accoglienti, invitanti, ma noi è come se fossimo schermati: quando abbiamo deciso che l'altro è un po' pericoloso, automaticamente trasformiamo qualsiasi altro nei pericolosi, e quindi li teniamo a distanza. Se dovessi dare un consiglio pratico intorno a questa domanda, hai due possibilità. Uno, provarci facendo fatica: buttati nel mondo fuori, vai in luoghi dove ci sono altri che possono essere per te attraenti. Giochi a scacchi? Vai al club degli scacchi. Ti piace il cinema? Vai a un cineforum. Ti piace viaggiare? Vai e cerca qualcuno che passa le domeniche salendo su un treno e viaggiando. Questo vuol dire mettersi alla prova nell'incontro con gli altri. Se sento che invece ho proprio un blocco, cioè mi sento così affaticato che poi alla fine la mia camera è quel luogo di protezione dove ho un po' tutto e non ho tanta voglia di andare fuori, ecco direi che questa domanda chiede magari un aiuto specialistico. Parla con qualcuno che fa questo di mestiere, perché scoprirai intanto che incontri un altro, accogliente, sorprendente, che ti metterà dentro, probabilmente nel lavoro che farete insieme, queste due dimensioni e ti farà fare prove. Ti aiuterà a uscire fuori nel mondo, tornerai da lui, guarderai quello che è accaduto insieme a lui o a lei, ne parlerete, poi ritornerete fuori a vedere che cosa succede. Questa andata e ritorno continua e vi aiuterà a mettere a fuoco quello che davvero serve per incontrare gli altri. La domanda però è bellissima e non smettere mai di fartela". “Come posso affrontare le cose senza sentire la pressione dei miei genitori?” Stefano Rossi: "Beh, non è facile ragazzi. Questo è un tema dolente perché ora, anche se non possiamo ipergeneralizzare voglio pensare che i vostri genitori vi vogliono bene. Spesso però i genitori sono i primi ad essere in ansia, quindi iniziano a proiettare su di voi delle aspettative, delle immagini: 'devi essere così', 'devi fare quel percorso'. Io vi direi: siate trasgressivi, siate trasgressivi nella misura in cui voi avete una verità interna che è il 'Daimon'. Aristotele diceva: 'L'Eudaimonia che cos'è? È trovare la felicità del buon demone'. Ragazzi, ciascuno di noi nasce con una vocazione. Alcuni lo capiscono da bambini, ce l'hanno già ben chiaro da piccoli, vedono già il loro futuro, vedono chi saranno. Ad altri ci vuole più tempo. Per me, per esempio, è stato così: sono stato un bravo studente, ma nel passaggio dalla scuola superiore all'università ero disorientato. Avevo una strada dritta: figlio di due ragionieri, ho fatto ragioneria, il mio tracciato era quello. Però ho sentito il mio buon demone che mi ha detto 'non è la tua strada, trova il coraggio di non essere frettoloso'. Oggi voi siete frettolosi, i genitori umanamente sono frettolosi e vogliono subito che voi troviate la vostra strada. Ragazzi, serve una vita per capire chi siamo. Il piccolo consiglio che mi consento di darvi è: prendetevela con calma, cercate di interrogarvi. Ma ricordatevi che la verità della vostra anima, la stella del vostro desiderio non è dentro di voi, non è nemmeno fuori, ma è nell'incontro col mondo. Quando tu incontri nel tuo viaggio, nel tuo cammino qualcuno che ti accende, ti accende una stella, ti accende un'emozione, magari una parte del tuo cuore risuona e arrivi a pensare: 'Quella cosa lì potrebbe essere la mia strada, la mia vocazione'. Io vi chiedo di essere tenaci. Per chi è tenace, per chi non smette di cercare la verità del proprio desiderio, il desiderio arriva. E poi ricordatevi: intelligenze artificiali o meno, se vi prenderete cura dei vostri sogni, i vostri sogni un giorno dopo l'altro si prenderanno cura di voi". Oltre alle domande di studentesse e studenti, ci sono anche quelle dei genitori. Come possiamo sostenere davvero i nostri figli? Cosa possiamo fare? Stefania Andreoli: "È un tema caldissimo, è una domanda centrale. Io ho le idee piuttosto chiare su questo. Il modo che noi adulti abbiamo per sostenere i nostri ragazzi è capire dal punto di vista proprio ingegneristico: immaginatevi come stanno su le cose. Il verbo sostenere rimanda proprio all'idea di tenersi forti, tenersi saldi. E il genitore crede in effetti di dover essere lì a continuare a controllare il cantiere, fare la manutenzione, non mancare mai a un appuntamento con l'architetto e il geometra. No, arriva un'età della vita che è questa nella quale il modo di esserci del genitore è fare un passo di lato. È vero che tutti ne parlano, però attenzione: tutti ne parlano perché la domanda del genitore oggi in effetti è pressante. È il genitore che va a chiedere dappertutto: 'Ditemi come devo fare a fare la madre e il padre di mio figlio'. È una domanda perversa, perché è tuo figlio che ti deve dire come devi fare il suo genitore, non l'esperto che non vi ha mai visti. È il bambino fin da piccolo a indicare la strada di ciò che gli occorre alla sua mamma al suo papà. Sapete da quando? Da quando con un tipo di pianto che differenzia 'ho il pannolino bagnato', 'mi annoio', 'mi manca qualcuno che mi tenga in braccio', 'mi sono fatto male al ditino del piede', chiede al genitore di rispondere in modi differenti. Allora qual è il buon genitore? È quello che non infila il ciuccio in tutti i casi in bocca perché sembra che a quel punto il bambino si zittisca e siamo andati tutti bene. Si tratta di sintonizzarsi facendosi da parte rispetto alle nostre aspettative su chi vorremmo che il figlio fosse, affinché il figlio sia. Allora io lo capisco che sia difficile: il lavoro del genitore è ingratissimo. Però se vogliamo davvero darci una risposta evolutivamente onesta, noi dobbiamo fidarci del mondo che c'è al di là di noi. Quando il bambino smette di avere questi bisogni così primari, quando la vita del bambino smette di dipendere dalla nostra presenza, il modo migliore per esserci è non esserci, sapendo che abbiamo costruito una torre talmente salda che non serve che stiamo lì a tenerla con la mano. Perché anche se ci spostiamo, se tutto è andato sufficientemente bene, regge e non crolla". Quanto gli strumenti come il registro elettronico e la geolocalizzazione impattano nel rapporto genitore figlio? Alberto Pellai: "Via tutta questa roba dagli smartphone, cancellare tutto. Direi al genitore, invece di preoccuparsi di controllare dov'è il figlio, di farsi la domanda 'dove sono io nella vita?'. Un'altra cosa importantissima è essere adulti appassionati della propria adultità. E la cosa che serve di più a un figlio è il tuo essere esemplare, non perché sei perfetto, ma perché sei un adulto che quando torna a casa la sera ha un mondo da raccontare: non ti comunica la sua stanchezza, non ti comunica la sua frustrazione, ma ti comunica il senso e il significato profondo dell'essere stati se stessi, che è quello che deve imparare un figlio nel suo percorso di crescita. Diventare se stesso". Lo scorso anno si è registrata un'enorme quantità di richieste da parte delle famiglie, non tanto degli esiti degli esami di maturità, ma di tutto quello che era stato il percorso dei figli. I genitori chiedevano alle scuole perché il proprio figlio avesse ricevuto come voto 80, e non 85. Come possiamo porci avanti a un “fallimento”, davanti ad un errore? Stefano Rossi: "Torniamo al tema del controllo, che parla della nostra insicurezza. Io mi sento di dire ai genitori che ogni figlio è una torre di Pisa, ogni figlio ha diritto di essere storto. Io ero un figlio storto, voi siete storti, i vostri genitori erano più storti di voi. Di fronte a una torre di Pisa un matto cosa fa? La vuole raddrizzare. Un matto un po' ossessivo un pochino controllante la rende perfetta. Invece il compito, secondo me, del famoso genitore sufficientemente buono ama la tua stortura, ovvero ti aiuta a riconoscere che proprio nella tua inclinazione, nel tuo taglio, nella tua angolazione c'è una bellezza. A me verrebbe da dire: ognuno di noi è un disastro. Ma 'disastro' è una parola bellissima, perché è un astro, una stella che in qualche modo rompe, spiazza le aspettative degli adulti, dei genitori. Perché? Perché, in cerca della propria luce. Spesso, ragazzi, è nelle vostre storture, nel vostro essere “torre di Pisa” che c'è qualcosa di voi, della vostra inclinazione, della vostra unicità. Voi non dovete essere speciali, basta con questa storia dell'essere speciali. Voi siete unici, siete un pezzo unico. Il compito che oggi in qualche modo dovete assolvere è capire chi siete e chi volete diventare. Possiamo dire che l'errore non esiste? Errore richiama 'errare': se non voi, ragazzi, chi è che ha il diritto di errare, di cercare un'altra strada? Prendete anche le cadute: quando noi cadiamo finiamo fuori pista, ma quando siamo fuori pista vediamo il mondo da un'altra angolazione, ed è lì che c'è, non la resilienza, la ressurrezione. Una parte di te magari muore, ne nasce un'altra: avete il diritto di cadere, avete la responsabilità di riflettere sulle vostre cadute".

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Silvia Donnini