Consigliere di parità: un sistema efficace, ma sotto pressione

La Consigliera di Parità è una figura istituzionale che tutela il principio di uguaglianza tra donne e uomini nel mondo del lavoro. Istituita nel 2006, si occupa di discriminazioni, molestie, accesso alle opportunità, conciliazione, genitorialità e parità salariale. In Italia sono circa 240, distribuite a livello nazionale, regionale e provinciale, e vengono nominate via decreto dal ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali: per ricoprire questo ruolo è necessario avere competenze o esperienza nel settore del lavoro femminile e delle norme sulle pari opportunità. A tutti i livelli, il mandato delle Consigliere dura quattro anni ed è rinnovabile una sola volta: quando esercita il suo ruolo, ogni consigliera è considerata un pubblico ufficiale ed è quindi obbligata a segnalare alle autorità giudiziarie i reati di cui viene a conoscenza. L’ultimo rapporto sulle attività svolte da queste figure nel 2023 delinea un sistema abbastanza efficace, ma sotto pressione: le Consigliere gestiscono infatti più di mille casi all’anno, spesso senza avere a disposizione risorse economiche sufficienti. Esito favorevole nel 92% dei casi con il solo intervento delle Consigliere Nel 2023, 2.380 persone si sono rivolte alle Consigliere di parità: nell’81% dei casi si trattava di donne. In particolare, la maggior parte delle discriminazioni individuali vengono trattate dalle Consigliere provinciali o regionali, mentre la Consigliera nazionale si occupa di discriminazioni collettive. I casi individuali che arrivano all'ufficio della Consigliera nazionale vengono solitamente reindirizzati alle Consigliere locali. Delle più di duemila segnalazioni ricevute , le Consigliere ne hanno prese in carico mille, quindi poco meno della metà. Il 49% dei casi che non sono stati accettati riguardano richieste di informazioni , mentre il 21% sono stati reindirizzati agli uffici competenti. Nel 16% dei casi, le Consigliere non sono potute intervenire per mancanza di autorizzazione da parte della lavoratrice o del lavoratore, mentre il 14% delle segnalazioni non sono state riconosciute come episodi di discriminazione di genere. Tra i motivi principali dei casi di discriminazione individuale troviamo la conciliazione e l’orario di lavoro, la genitorialità, i regolamenti e le molestie. Nel rapporto, tuttavia, non sono presenti le percentuali precise per ogni tipo di motivazione. Le autrici del documento riportano però che “i temi della conciliazione si confermano, ancora una volta, le principali cause di discriminazione rilevate su tutto il territorio nazionale, anche se al Sud spiccano le discriminazioni connesse all’accesso al lavoro. Seguono le problematiche connesse alla maternità/paternità mentre aumentano le molestie registrate al Centro”. La maggioranza dei casi presi in carico dalle Consigliere si sono conclusi nell’arco dello stesso anno . In tutte le zone d’Italia, più dell’80% sono stati risolti solo attraverso l’intervento delle Consigliere, con esito favorevole per la lavoratrice nel 92% dei casi. Si registra invece un aumento, rispetto al 2022, delle archiviazioni per rinuncia della denunciante, che nel Sud arrivano fino al 17% del totale. I ricorsi in giudizio, invece, hanno riguardato pochi casi, quasi tutti presi in carico nel Centro, così come sono residuali le conciliazioni presso l’ispettorato . Aumentano le segnalazioni collettive A fronte di 252 segnalazioni per discriminazioni collettive, nel 2023 le Consigliere hanno preso in carico 214 casi: tre su quattro riguardavano lavoratrici. Dal punto di vista della provenienza delle segnalazioni, crescono quelle inviate da gruppi, associazioni e organizzazioni , segno di una maggiore consapevolezza collettiva, mentre restano stabili i casi rilevati d’ufficio dalle Consigliere regionali e scendono le segnalazioni individuali. La maggior parte dei casi è concentrata al Nord, dove emergono soprattutto criticità legate alla conciliazione tra vita e lavoro e ai congedi per maternità e paternità. Un dato sorprende più di altri: l’8% delle segnalazioni collettive ha riguardato molestie sessuali, una motivazione che solitamente caratterizza i casi individuali. Il 79% delle controversie è stato risolto grazie alla mediazione delle Consigliere, con esito favorevole per i lavoratori e le lavoratrici nel 91% dei casi. Più responsabilità, meno soldi Negli ultimi anni, il ruolo delle Consigliere di Parità si è ampliato in modo significativo: oltre alla funzione di vigilanza sui casi di discriminazione, dal 2021 è loro compito controllare che le imprese che hanno ottenuto la certificazione della parità di genere mantengano i requisiti necessari. Tuttavia, le risorse economiche disponibili non si sono adeguate a questa evoluzione. Dal 2015, il Fondo nazionale per il finanziamento delle attività delle Consigliere è stato sostituito da fondi a carico degli enti territoriali, con importi variabili e non sempre garantiti. L’indennità prevista per le Consigliere regionali effettive è compresa tra i 390 e i 780 euro lordi mensili: in provincia, i compensi vanno da 68 a 340 euro lordi. Oltre a essere irrisori, in molti casi questi importi non vengono erogati o risultano insufficienti a coprire anche solo le spese legali o organizzative. Nel 2024, il capitolo di bilancio destinato alla Consigliera nazionale prevedeva uno stanziamento complessivo di 30mila euro lordi: 10mila per l’indennità annuale della Consigliera effettiva, 5mila euro per la sua supplente e 6.391 euro per le missioni. In molti casi gli enti locali stanno ancora utilizzando i residui degli stanziamenti precedenti, mentre altri destinano somme marginali o non prevedono alcun finanziamento. La rete delle Consigliere ha inoltre segnalato che in alcune occasioni le posizioni sono state bandite a titolo gratuito. Le Consigliere di parità, in conclusione, lavorano per tutelare i diritti delle lavoratrici, anche sul piano economico, ma spesso lo fanno senza ricevere un compenso adeguato . Una rete chiamata a combattere le disuguaglianze, insomma, che continua a operare in condizioni diseguali.

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