Chiara Tramontano: "Giulia non sia dimenticata. La violenza? Si previene a scuola"

"Il dolore è un’esperienza immateriale che cerchiamo di confinare in uno spazio ristretto della nostra vita nella lotta disperata per continuare a vivere. Non somiglia a un liquido, che, obbedendo alle leggi della fisica, acquisisce la forma del suo contenitore. No, credo che il mio sia più simile a un gas, difficile da contenere e altamente esplosivo, invisibile a molti, ma non a chi mi ama. Ho imparato ad accettarlo, a riconoscere che fa parte della mia vita come un coinquilino invadente e fastidioso con cui condividere i sessanta metri quadri del mio appartamento. Anzi, a essere onesta, credo che sia più di un coinquilino. È un arrogante impostore che ha rubato ogni angolo di questa casa, sottraendomi la mia intimità". Giulia Tramontano, 29 anni, era incinta al settimo mese del bimbo che avrebbe chiamato Thiago quando il 27 maggio del 2023 venne uccisa con 37 coltellate dal compagno Alessandro Impagnatiello, condannato all'ergastolo in primo grado il 25 novembre 2024 per uno dei femminicidi più efferati che la cronaca abbia mai raccontato. Il suo assassino ha premeditato la sua fine per "quasi sei mesi", hanno scritto i giudici della Corte d'Assise nelle motivazioni della condanna, sottolineando che l'intento di uccidere la compagna sarebbe risalito già a dicembre 2022, prima di iniziare ad avvelenare con un topicida Giulia e il bimbo che aspettava. L'incontro di quel 27 maggio 2023, dopo che lei e la donna con cui l'assassino aveva una relazione parallela si erano viste, "ha determinato una svolta". È stato in quel momento che secondo i giudici Impagnatiello "ha compreso che il castello di bugie con cui aveva tenute entrambe le donne in scacco era crollato". La famiglia di Giulia, composta dai genitori Loredana e Franco e dai fratelli Chiara e Mario, da due anni è frantumata "in pezzi che non combaciano più", racconta la sorella, 28 anni, che dopo la fine del processo si è trasferita in Olanda. Lavora all'università di Eindhoven, dove sta cercando di essere di nuovo Chiara, "non un simbolo vivente della tragedia". Nel libro Non smetterò mai di cercarti ha ripercorso gli ultimi due anni, dalla telefonata che la avvisava della scomparsa di sua sorella al vuoto che la fine del processo ha lasciato, per provare a fare i conti con quel dolore senza confini, e per non permettere che il tempo sbiadisca ogni ricordo di Giulia: "Scrivere è il mio modo di non lasciarti andare". Questo libro nasce anche dalla paura che sua sorella venga dimenticata? Sì. All’inizio non volevo farlo, ma una volta che il processo è terminato l’idea che la luce sulla sua storia si potesse spegnere e le persone potessero dimenticarla mi faceva male. In più la stampa in questi due anni ha scritto di tutto su Giulia, ma non sempre raccontando la verità. L’idea che potessi restituire io l’immagine reale della sua storia mi permetteva di darle voce. E a lei è stato utile, in parte, a elaborare il dolore? Sì, scrivere è servito anche a me per ricostruire la storia, raccontare a me stessa gli eventi che come famiglia siamo stati costretti ad affrontare. E realizzare quello che è successo, a partire dal giorno in cui si è interrotta la mia vita in Italia, quello in cui è scomparsa. Lei e Giulia eravate molto diverse. Nel libro racconta di un rapporto “vero, con le sue contraddizioni”. Sì, penso che non esistano rapporti idilliaci tra sorelle. Con Giulia eravamo quasi coetanee e da piccole vivevamo la normalità, a volte difficile, della condivisione della nostra stanza. Ci scambiavamo i vestiti e volte discutevamo, come fanno tante sorelle. La fase adolescenziale è stata più critica, quando sono emersi i nostri caratteri molto diversi: spesso ci sembrava non combaciare. Solo in una fase più matura, da grandi, ci siamo completate. Pochi mesi prima del femminicidio vi eravate allontanate perché lei disapprovava il rapporto con il suo compagno. Nel libro scrive: “Non riuscivo più nemmeno ad ascoltarla quando parlava di lui”. Perché? Spesso lui faceva promesse di partecipazione a eventi familiari a cui poi non si presentava mai, utilizzando sempre scuse. Non c’era a Natale né a Pasqua, e nei week end era sempre impegnato. La sua giustificazione era sempre il lavoro. Che persona era? A me sembrava una persona inconcludente, e molto superficiale. Quel genere di persona che mostra un castello di sabbia, ma indagando un po’ si capisce in fretta che mancano le fondamenta. Non ho mai avuto un dialogo vero con lui, non lo trovavo una persona interessante. Ma nella vita non si può scegliere per gli altri. Mia sorella lo aveva fatto per sé. C'erano mai stati campanelli di allarme che potessero far pensare a un pericolo? Giulia aveva mai avuto paura di lui? No, non ci sono mai stati. La violenza non sempre fa rumore: può esistere anche senza un urlo o senza un livido. E Giulia non aveva paura. Lo dimostra il fatto che dopo che aveva scoperto tutte le sue bugie sia tornata a casa da lui. Se avesse avuto paura, avrebbe potuto andare da un’amica, o prendere un treno e raggiungermi a Genova. Lei e la sua famiglia avete creduto al pentimento del suo assassino? No, perché per pentirsi è necessario prendere coscienza di quello che si è commesso. Le sue scuse, ripetute anche in Aula, per me hanno lo stesso valore della sua persona: nullo. Ritengo che una persona di fronte a una sentenza di condanna all’ergastolo dovrebbe non solo dire che gli dispiace, ma voler espiare le sue colpe. E accettare di restare in carcere senza cercare scuse, mentre i suoi legali hanno fatto Appello per contestare due aggravanti, quindi tentare di evitargli l’ergastolo e accedere alla giustizia riparativa. Raccontando i mesi del processo, ha scritto: “Mi sentivo come un animale in gabbia, sotto i riflettori di uno spettacolo macabro”. C’è stata una parte della stampa rispettosa di quello che la nostra famiglia stava affrontando, che ha conservato un contegno e non ha ceduto alla morbosità. Ma purtroppo ci sono stati anche quelli che ci hanno chiesto quasi con pietà se "per favore" potevamo metterci in posa davanti ai fotografi mentre aspettavamo la sentenza di condanna. Mi sono sentita come un pesce in un acquario. Cosa vi ha fatto soffrire di più in questo senso? L’accanimento mediatico: voler necessariamente indagare nel passato di Giulia, cercare addirittura dei suoi messaggi vocali e pubblicarli. Come si fa a rendere pubblici degli audio in cui mia sorella raccontava con entusiasmo del primo appuntamento con l’uomo che poi l’ha uccisa insieme a suo figlio? Come si può stampare sui giornali la fotografia di Giulia con il suo assassino insieme in vacanza? Non me lo spiego. La fine del processo, ha raccontato, ha portato il massimo della pena ma vi ha svuotati come famiglia. Sì, è così. La forza che abbiamo usato per combattere per la giustizia per Giulia - non mancando mai a nessuna udienza nonostante la distanza da Milano - non ha mai alleviato il nostro dolore, però ci dava un motivo per continuare a sopravvivere. Nonostante le assicuro che doversi sedere a pochi metri dall’assassino della propria figlia o sorella sia qualcosa di atroce. Lei si è fatta portavoce della storia di sua sorella, come ha fatto Elena Cecchettin per la sua Giulia, anche se in modi diversi. Vi siete mai incontrate? Ha mai trovato una sorta di conforto nella condivisione di questo dolore? No, cinicamente mi permetto di dire che non ho mai sentito questo bisogno. Non avrei lo spazio dentro di me per poter accogliere anche il dolore di qualcun altro. Io ed Elena abbiamo affrontato la sofferenza con cui conviviamo in maniera molto diversa. Lei e suo padre hanno intrapreso una battaglia soprattutto politica. Io invece ho scritto la storia di mia sorella perché ho la necessità che non venga dimenticata, ma non riesco a farmi portavoce di una battaglia simile. Non vivo più in Italia e non nutro nemmeno fiducia in questo Paese. Crede nell’importanza di parlare di violenza sulle donne “facendo rumore”, come ha chiesto Elena dopo il femminicidio della sorella? Io non credo nelle cose disordinate. Fare rumore è importante, ma non so se serve a qualcosa cambiare le leggi dopo che le donne sono state uccise, come nel caso del nuovo ddl per punire il femminicidio con l’ergastolo. Penso che più che essere noi vittime collaterali a dover fare rumore, sarebbe lo Stato a dover intervenire. Per esempio, rispetto alla chat circolata ieri tra ragazzi in classe a Bassano del Grappa, mi chiedo: chi interverrà? Si riferisce al sondaggio choc che chiedeva in una chat scolatica chi “meritava di più di essere uccisa” tra sua sorella, Giulia Cecchettin e Mariella Anastasi… Quella notizia ha fatto un grande rumore, ma sono curiosa di sapere tra una settimana cosa avrà deciso di fare l’istituto nei confronti di quell’alunno: verrà sospeso? Ripeterà l’anno? Ad ogni modo la punizione, da sola, non servirà a niente. Quindi va bene il rumore, ma se un rumore non ha una eco che lo segue dopo un po’ si spegne. Bisognerebbe rieducare gli studenti che manifestano pensieri terribili come quelli di quel ragazzo. La scuola dovrebbe rendere obbligatoria l’educazione sessuo-affettiva come forma di prevenzione della violenza? Sì, agire in maniera preventiva dovrebbe essere la soluzione. Penso che in classe insieme ai ragazzi bisognerebbe parlare, al di là delle materie di studio, anche di cosa succede attorno a loro, come i femminicidi. E ascoltare i ragazzi, discutere con loro, in modo da poter intercettare quando qualcosa che non va. Nelle scuole i ragazzi trascorrono dalle 6 alle 8 ore al giorno, è lì che si deve lavorare. Non solo in famiglia. Da qualche mese se ne è andata da Genova e si è trasferita in Olanda, anche per liberarsi del peso di un ruolo schiacciante. La sta aiutando a ricominciare? Sì, fortunatamente quando arrivi in un posto in cui nessuno ti conosce vieni vista solo per quella che sei. Io qui sono di nuovo solo Chiara Tramontano e il mio cognome non rimanda a nessuna tragedia. A Eindhoven sto avendo la possibilità di rimettere insieme i pezzi della mia vita e cercare di ricostruire relazioni, anche se è molto difficile. Qui, lontano dall’Italia, la mia tragedia è personale e posso permettermi di scegliere di condividerla con chi voglio senza esserne completamente travolta. Il libro racconta non solo del femminicidio di Giulia, ma anche della “distruzione” della vostra famiglia, che ha definito “una famiglia vera, con le sue crepe e le sue riparazioni”. Riuscite a starvi vicini nonostante la distanza? Sì, recentemente i miei genitori e mio fratello sono stati qui a trovarmi, mentre a Pasqua sono tornata io a Napoli. La nostra famiglia è molto numerosa, e quando posso preferisco raggiungerla io perché essere in tanti a un pranzo o una cena ci permette di respirare un po’. Mentre quando siamo a casa solo noi quattro, vedere il posto a tavola di Giulia che manca fa sempre molto male.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Chiara Tramontano: "Giulia non sia dimenticata. La violenza? Si previene a scuola"