Carcere, l’ex direttore di Bollate: “I detenuti devono poter uscire”

Emanuele De Maria, che venerdì 9 maggio avrebbe ucciso la collega Chamila Wijesuriya a Cinisello Balsamo, nella periferia nord di Milano, prima di togliersi la vita gettandosi dalle terrazze del Duomo, era detenuto nel carcere di Bollate. Stava scontando una pena di 14 anni e 3 mesi, imposta dalla condanna definitiva arrivata nel 2021, per un femminicidio commesso nel 2016. Ogni giorno, dal 29 novembre 2023, De Maria lasciava il carcere per spostarsi all’hotel Berna di via Napo Torriani, a Milano, dove era assunto a tempo indeterminato: per la sua buona condotta, al termine di corsi preparatori e valutazioni interne, il carcere di Bollate aveva chiesto e ottenuto l’autorizzazione all’impiego dal Tribunale di Sorveglianza. Lo stesso Tribunale che, in seguito al femminicidio di Chamila Wijesuriya, ha ribadito in una nota che il percorso carcerario di De Maria “si è mantenuto sempre positivo anche durante i due anni di lavoro presso l’albergo Berna, senza che nulla potesse lasciare presagire l’imprevedibile e drammatico esito”. De Maria non era l’unico lavoratore del carcere di Bollate. Dei 1.380 detenuti, oltre 700 sono tuttora impiegati e molti godono di un permesso d’uscita per il lavoro. Si tratta della casa circondariale più giovane di Milano, inaugurata nel dicembre del 2000, che in 25 anni si è guadagnata le definizioni di prigione “normale”, “aperta” e “all’avanguardia” per la sua attenzione alla socialità e ai percorsi di studio e di lavoro offerti alle persone detenute. All’indomani del femminicidio di Chamila Wijesuriya, Luigi Pagano, ideatore del “progetto Bollate” e primo direttore del carcere, ne difende il modello: “Mantenere chiusa una persona con 4 o 5 ore d’aria, significa che non avrà mai nulla da fare. Dentro a celle sovraffollate, cresce soltanto l’insoddisfazione e la rabbia. Si formano delle camere a gas dove basta una scintilla per far scoppiare situazioni gravissime – commenta a Sky tg24 Insider – Quando, invece, il detenuto si trova all’esterno, può creare le condizioni lavorative necessarie per il reinserimento sociale che, non dimentichiamocelo, ci è imposto da un mandato costituzionale”. Direttore, dopo il caso di De Maria, si è tornati a mettere in dubbio l’opportunità di far uscire i detenuti dalle carceri con permessi di lavoro o tramite l’applicazione di misure alternative. Quanto è alto il rischio imposto da queste strategie? Non abbiamo parole per commentare il caso di De Maria, che è gravissimo e nessuno lo mette in discussione. Ma il nostro obiettivo non è stabilire al 100% che non ci sarà una recidiva per nessuna persona: non siamo chirurghi, lavoriamo con gli esseri umani e non con dei robot. È impossibile eliminare del tutto il rischio di commissione di un reato. Ma i percorsi di lavoro fuori dal carcere e le misure alternative alla detenzione funzionano: glielo mostro con i dati. Al momento, abbiamo circa 100mila persone in misura alternativa [95.315, al 15 febbraio, contro 61.916 detenuti, al 31 gennaio, ndr] con un tasso di recidiva bassissimo [meno dell’1% delle misure alternative sono revocate per commissione di nuovi reati, dati Antigone, ndr]. Chi esce dal carcere al termine della pena, invece, senza attività trattamentali ha un tasso di recidiva altissimo, che supera il 70%. In pratica, la loro sorte è segnata: escono e, dopo tempi brevi, rientrano in carcere. È un circolo vizioso da cui non sfuggono più. Quindi, una pena che tenda al reinserimento non la attuiamo per “premiare il detenuto”, ma è un’azione di servizio sociale per reinserire la persona e ridurne, di fatto, anche la pericolosità. Piuttosto che criticare le misure alternative, potenzierei le attività di osservazione, controllo e accompagnamento. Ma servono investimenti. Di che tipo? Psicologi, educatori, assistenti sociali. Dobbiamo spendere risorse in tutte quelle figure professionali che accompagnano i detenuti sia dentro al carcere sia nell’attività esterna, fino al reinserimento sociale e alla possibilità di costruirsi una vita libera da soli. Questi professionisti devono essere maggiori di numero e avere più tempo da dedicare ai detenuti. Il caso di De Maria non ci deve spaventare, ma insegnare a investire più risorse in questo. Quando avete progettato il carcere di Bollate dove era detenuto anche De Maria, lo avete pensato secondo modelli diversi da molte altre prigioni italiane. Ci racconta quel momento? Bollate è stato inaugurato nel 2000. Avevamo la possibilità di aprire un istituto nuovo, così abbiamo potuto costruirlo secondo le norme dell’ordinamento penitenziale. Semplicemente applicandolo bene, come spesso non si può fare. Intanto, la cella è diventata solo il luogo dove riposare: la vita del detenuto a Bollate si deve svolgere all’esterno, dove ci sono spazi adatti alle attività trattamentali: formazione professionale, studio, sport e gioco. Senza creare questi spazi e la possibilità di uscire dalla camera di pernotto, dedicandosi cioè ad altre attività, è inutile anche chiamare in causa i datori di lavoro: si troverebbero di fronte troppi impedimenti. Dopo qualche giorno, queste persone lascerebbero il lavoro. Al termine del suo turno di lavoro, De Maria non è più tornato al carcere di Bollate. E, per questa evasione, si è discusso anche del sistema di “sorveglianza dinamica” del carcere. Di cosa si tratta? Per la sorveglianza dinamica fui attaccato anche quando ero Vice capo dipartimento. Ma la questione è semplice: quando dobbiamo avviare un’attività trattamentale o di controllo, non possiamo attuarla su una base stereotipata, ma dobbiamo rifarci necessariamente alla persona. Mi spiego meglio: un trattamento offerto a una persona tossicodipendente sarà diverso da quello riservato a chi ha commesso un grave reato di sangue o a un mafioso. Lo stesso vale per il rapporto di vigilanza, che deve tenere conto della pericolosità della persona. Traduco: un settantenne che ha da scontare una pena di un anno, difficilmente creerà problemi all’interno del carcere. Diverso è il discorso per un ergastolano. Distinguere questi contesti ci aiuta anche a razionalizzare le risorse economiche che abbiamo. Perciò, è necessario portare i detenuti fuori dalla cella: solo così puoi conoscerli. Durante le attività, vengono osservati per capire quale trattamento o sorveglianza adottare. Lei è stato per 15 anni anche direttore del carcere di San Vittore. Bollate è diverso dalle altre strutture milanesi? Anche a Bollate ci sono state evasioni. Opera e San Vittore sono strutture diverse per nascita che, però, hanno fatto passi in avanti da gigante. In generale, l’importante è avere un’idea da seguire, perché ovunque dobbiamo gestire un gravissimo sovraffollamento. E attualmente manca proprio un progetto da parte del potere politico. Cioè? Intendo dire che l’idea, al momento, è soltanto securitaria. All’interno delle carceri, un po’ ovunque, vengono ridotte le ore d’aria e i detenuti sono trattenuti all’interno delle celle. Ci lamentiamo, giustamente, se vediamo un orso in gabbia allo zoo, ma poi teniamo dentro alle celle uomini, con la loro ricchezza umana, comprimendo la loro libertà – sempre per motivi previsti dalla legge, certamente - per 20 ore su 24. Riportandoli, finite le ore d’aria, in stanze sovraffollate che sono camere a gas per far scoppiare insoddisfazione, rabbia e scontri. È chiaro che nelle carceri più “aperte” si lavora meglio, perché il clima è più disteso. Prima, ha parlato degli alti tassi di recidiva dei detenuti che hanno scontato la pena in carcere. Ora, spiega che dentro alle celle scoppia la rabbia. In pratica, sta suggerendo che le nostre prigioni non ci rendono più sicuri? Dico che nelle nostre carceri pratichiamo il veleno e l’antidoto. È evidente che il carcere, in una logica securitaria, tenendo chiuse le persone nelle celle, fa male. E ferisce maggiormente le persone marginalizzate, le più colpite anche dai decreti sicurezza e le più rappresentate come popolazione nelle prigioni. Le stesse che, talvolta, sono costrette a rimanere in carcere perché non hanno le condizioni per ottenere le misure alternative: magari non hanno una famiglia, un lavoro, una casa oppure sono irregolari. Ma il carcere non fa bene alla dignità di nessuno. Basta vedere quanti suicidi ci sono [22 casi nei primi tre mesi del 2025, ndr]: sono numeri che mi preoccupano moltissimo. E non sono migliori quelli della criminalità, che comunque non regredisce. Che soluzione propone? Io spero che la storia, prima o poi, elimini il carcere per tutti i problemi che genera. Prima di curare il detenuto, il carcere dovrebbe curare i mali che fa alla persona detenuta. Suggerisce, quindi, di superare il carcere? È già superato, tutto sommato. Esiste già un modello diverso per scontare le pene. Solo tre o quattro anni fa ci saremmo sognati questo alto numero di misure alternative. Un tempo il carcere aveva come orizzonte il reinserimento sociale, ma ora segue il paradigma dell’esecuzione della pena.

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