Educazione affettiva come materia, per non dimenticare l'empatia. Anche con i mostri

Fra gli appassionati della serie britannica "Adolescence", di cui qui già abbiamo discusso, c’è chi sostiene che il picco emotivo si raggiunga nella terza puntata, durante il colloquio fra Jamie, il tredicenne femminicida protagonista, e la psicologa che lo va a incontrare in carcere, e chi sostiene che si raggiunga nella quarta e ultima puntata, quando, dopo tredici mesi dall’assassinio, la famiglia di Jamie, il padre e la madre e la sorella, passano da un estenuante fare finta che tutto possa andare comunque avanti, e i compleanni possano venire festeggiati con gioia e si possa vestirsi bene per andare al cinema di sabato pomeriggio, all’accettazione dell’evidenza. Quello che invece a me più continua a rimanere dentro, e a grattare in una zona di me a cui difficilmente ho accesso, è un gesto: il gesto che fa il padre di Jamie, nella prima puntata, quando la polizia lo costringe ad assistere assieme al figlio al video che inequivocabilmente mostra il ragazzino accoltellare per sette volte una compagna di scuola. Finito il video, Jamie, che poco prima aveva giurato di essere innocente, cerca un contatto, una qualche possibile assoluzione da parte del padre, mentre lui, istintivamente, lo allontana con il braccio, e per pochi secondi si concede di piangere e basta, con se stesso, prima di tornare a cercare un modo per rimanere in relazione. Per rimanere, nonostante tutto, padre. Non sappiamo se anche la filippina Nors Manlpapaz, madre di Mark Samson, il ventitreenne reo confesso dell’omicidio di Ilaria Sula, perché “la amavo follemente e ho agito per rabbia e gelosia”, si sia concessa quei pochi secondi. Sappiamo però che ha aiutato il figlio a pulire le macchie di sangue nella loro casa - dove Ilaria era andata per discutere con Mark, perchè si faceva sempre più intrusivo - e che adesso è indagata per concorso di occultamento di cadavere. Che, dunque, potrebbe avere aiutato il figlio a chiudere il corpo della ragazza nella valigia in cui è stata orrendamente ritrovata. Sappiamo anche che a Nors non piaceva, quella Ilaria per cui Mark aveva perso la testa: era troppa diversa da una ragazza filippina, cresciuta nelle tradizioni del loro Paese, troppo strana. Ogni tanto, quando stava con Mark, rimaneva a dormire lì, con lui - anche se nel primo interrogatorio Nors si è contraddetta e ha sostenuto di averla a malapena incrociata. Nel frattempo, i genitori di Ilaria vogliono giustizia, pretendono che “chi ha fatto questo a Ilaria, una ragazza d’oro, un angelo che ora è in cielo, deve marcire in carcere”. Da madre di una bambina di sette anni, in questi giorni non faccio che abbracciarli, a immaginare come possano sentirsi fatico: ma fatico ancora di più a immaginare come possano sentirsi i padri di tutti i Jamie del mondo. Le madri dei Mark. Fatico talmente tanto che non potrei assicurare che, lì per lì, se tornassi a casa e la trovassi sconvolta e con un cadavere nella stanza, come prima cosa chiamerei la polizia. La farei per quarta, per quinta. La farei. Ma forse non per prima. Forse addirittura per prima cosa pulirei le macchie, e non per aiutare mia figlia a evitare la sua pena, ma per dire a entrambe, a me e a lei: non è successo niente. Tutto può andare comunque avanti, i compleanni potranno sempre venire festeggiati con gioia e ci potremo vestire bene per andare al cinema di sabato pomeriggio. È bestiale, certo che lo è: proprio come è bestiale avere dei figli - è quanto più ci avvicina agli animali. Se non partiamo da questo presupposto, però, se ci limitiamo a dare dei mostri alle famiglie dei Jamie e dei Mark, perfino dove mostri in effetti si riveleranno, se ci limitiamo a condannarli, anche noi, nel caldo dei nostri letti, perdiamo un’occasione. Anche noi diamo le spalle a quell’educazione affettiva di cui tanto avrebbero bisogno, come materia a tutti gli effetti, i nostri figli, a scuola, accogliendo finalmente l’appello che da due anni fa l’associazione Una, nessuna e centomila. Educazione affettiva il cui principio base non può che essere l’empatia: un invito quotidiano a ricordarsi che al di là di quel maledetto schermo di quel maledetto telefono le persone esistono davvero. Hanno un pensiero, un corpo, la loro libertà. Hanno felicità. Dolori che non possiamo nemmeno immaginare. Una vita. Che ha lo stesso valore della nostra.

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