Il 28enne è tossicodipendente soffre di ritardo mentale e da un disturbo della personalità: oltre ai tentativi di togliersi la vita ha compiuto “atti di automutilazione almeno 45 volte”. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nei giorni scorsi ha condannato lo Stato italiano a risarcirgli 9mila euro di danni non patrimoniali per la “mancanza di un adeguato trattamento medico e di una presa in carico da parte delle autorità competenti nonostante la gravità accertata dei suoi disturbi psichiatrici”
Un detenuto di 28 anni, tossicodipendente e affetto da un grave disturbo della personalità e da ritardo mentale, tra il 2016 e il 2022 ha tentato il suicidio 18 volte, anche cercando di impiccarsi, e si è automutilato in almeno 45 occasioni. Secondo i giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, lo Stato italiano non gli ha garantito un trattamento medico adeguato, né una presa in carico coerente con la gravità accertata della sua condizione. A denunciare il caso davanti ai giudici di Strasburgo sono stati gli avvocati milanesi Antonella Calcaterra, Antonella Mascia e Davide Galliani, che hanno ottenuto una condanna per violazione dei diritti umani: l’Italia dovrà risarcire il giovane con 9mila euro per danni non patrimoniali. La Corte ha inoltre accertato la violazione del diritto di accesso a un tribunale, garantito dall’articolo 6 della Convenzione, a causa della mancata esecuzione di un provvedimento giudiziario che disponeva il trasferimento di Simone in una struttura penitenziaria più adatta alle sue condizioni.
Negate pene alternative: ritenuto compatibile col carcere
Dai diari clinici del carcere risulta che, in occasione dei tentativi di suicidio e di automutilazione, il detenuto “viene generalmente descritto come in uno stato di grande agitazione, confusione o sconforto e, a volte, gli atti coincidono con le sue richieste di cambiare cella o carcere, di avere farmaci o col semplice rifiuto di seguire le istruzioni del personale carcerario”. Dopo questi eventi, “viene generalmente trasferito in una 'cella liscia' (senza oggetti) per periodi non specificati o, per lo meno, privato di oggetti pericolosi e sottoposti a stretta sorveglianza”. Tra le diverse pronunce dei tribunali di Sorveglianza delle carceri in cui è stato recluso (in Sardegna e ora a Torino) e ai quali sono state richieste misure alternative alla cella, ce n’è una di quello di Sassari secondo il quale “il disagio e gli atti di automutilazione del ricorrente sono probabilmente causati dal suo rifiuto di assumere i farmaci prescritti ma non è possibile stabilire se tale rifiuto sia finalizzato a ottenere una misura alternativa alla detenzione o se fosse semplicemente espressione di una patologia psichiatrica”. Lo stato di salute è stato quindi sempre dichiarato compatibile col carcere.

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L'avvocato: "Tribunali italiani avevano espresso dubbi sulle cure in carcere"
"Non è contestato che il ricorrente soffra di gravi disturbi mentali - scrivono i giudici della Cedu nelle conclusioni -. Sebbene le relazioni mediche rilasciate dai servizi carcerari concludessero, per la maggior parte, che egli potesse essere curato in carcere, una serie di fattori ha sollevato seri dubbi al riguardo. Gli stessi tribunali nazionali hanno espresso dubbi sul fatto che potesse essere curato. Questi dubbi erano corroborati dai numerosi atti di automutilazione e dai tentativi di suicidio del ricorrente. Certo, questi gesti a volte coincidevano con richieste da parte sua; ciò non toglie che testimoniassero un significativo malessere del ricorrente che, lungi dal diminuire in seguito al suo graduale adattamento all'ambiente carcerario, sembrava al contrario aggravarsi con il passare del tempo" Per questo, "alla luce dei numerosi fattori che sollevano dubbi sulla compatibilità del suo disturbo mentale con la detenzione, la Corte ritiene che le autorità nazionali avrebbero dovuto esaminare la questione con particolare rigore in considerazione della vulnerabilità del ricorrente in quanto detenuto affetto da disturbo mentale. Avrebbero quindi dovuto esaminare in modo approfondito - se necessario attraverso una nuova perizia medica - la possibilità di mantenerlo in carcere e di fornirgli cure adeguate in tale ambiente”. "Il caso di Simone è anche un fallimento nostro, di un sistema che non riesce a dare una prospettiva di vita diversa a un ragazzo problematico che non sia il carcere" è il commento dell'avvocata Calcaterra.
