Fine vita, la lunga attesa di Martina per il diritto a morire in Italia

Martina Oppelli è morta il 31 luglio 2025 in Svizzera, dove ha avuto accesso al suicidio medicalmente assistito. *** Non c’è vento, a Trieste, in questo mercoledì di novembre. I colori della città cambiano rapidamente dal blu petrolio al grigio cenere mentre i palazzi asburgici, di un’austerità quasi tragica, montano la guardia al golfo. Dopo aver parcheggiato, ci avventuriamo verso un breve saliscendi che da Piazza Unità ci porta a una strada in pendenza che risaliamo fino al portone giusto. La “casa non casa” di Martina è piccola, spartana: un luogo dove abitare ma, così sembra, da non amare troppo. Entriamo subito nella vita di questa donna bella, minuta, che la malattia ha trasformato nel fisico ma alla quale ha regalato mente e anima d’acciaio. Martina è paralizzata dal collo in giù e la sua malattia, la sclerosi multipla secondaria progressiva, non prevede guarigione. L’ambiente intorno a lei è del tutto simile a quello che circonderebbe una persona sana e, se si guarda con attenzione, tutto racconta del suo carattere e della sua determinazione a decidere per se stessa: dalle fotografie ai piccoli oggetti di uso quotidiano , è tutto disposto in maniera razionale, funzionale. La lotta di Martina per decidere del suo destino, della sua vita e della sua morte inizia nell’estate del 2023 quando, ai sensi della sentenza numero 242 del 2019 emanata dalla Corte Costituzionale, inoltra alla Asl competente la sua richiesta di accedere alle procedure per il fine vita. Dopo la visita di rito la burocrazia, come spesso succede, diventa cieca e sorda e la Asl non risponde nel modo che la legge prescrive: cioè con una relazione che indichi se la paziente soddisfi i requisiti previsti dalla sentenza 242. Ma quali sono i requisiti? In pratica, il suicidio assistito è permesso quando la persona sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, sia affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputi intollerabili, e che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Dopo diversi mesi e tante sollecitazioni la Asl rigetta la richiesta perché, sostiene, uno dei quattro requisiti non è soddisfatto. E, stranamente, è il requisito più immediatamente evidente, cioè quello sui trattamenti di sostegno vitale. Senza assistenza, Martina morirebbe nel giro di qualche ora. Tra sofferenze che scrivere qui sarebbe troppo complicato e irrispettoso. E cosa significa “assistenza”, nel caso di una persona nelle condizioni di Martina? Semplicemente, vuol dire tutto: dall’aiuto nel portare il cibo alla bocca allo sblocco del telefono per chiamare un amico o un parente, dall’assistenza per espletare le più elementari funzioni biologiche alla sistemazione per la notte. Martina ha bisogno di qualcuno che stia con lei ventiquattr’ore al giorno per continuare a vivere. O, come dice lei, a funzionare. Martina esprime un concetto più volte nel corso della nostra conversazione: non vuole diventare, finché è in tempo, una macchina che per continuare ad essere attiva. Ha bisogno di carburante e cure che qualcun altro deve garantire. Racconta che, al momento della diagnosi, rivolse un muto ringraziamento al destino che aveva colpito lei e non una persona che lei amasse. E che passato quel momento, durissimo e definitivo, l’unica scelta che aveva era quella di mettere una grossa X sulla casella con su scritto “vivere”. E vivere significava lavorare, viaggiare, avere relazioni con altre persone, essere autonoma. E così è stato. Martina si sposta per lavoro da Venezia a Vienna, poi di nuovo l’Italia man mano che la malattia progredisce. Continua a lavorare anche a Trieste, vince concorsi e coltiva i suoi interessi. Martina è melomane e Wagner la appassiona, con il suo tumulto e la sua architettura compositiva travolgente. I tratti epici wagneriani le si addicono, anche se è costretta all’immobilità. La strada che ha scelto di percorrere è difficile, come tutte quelle che prevedono, a volte, la sconfitta. I rifiuti e i ritardi, le storture di un sistema che ancora non permette alle persone di autodeterminarsi è fonte di sofferenza e frustrazione ma, almeno per quanto siamo riusciti a vedere nelle poche ore che abbiamo avuto a disposizione, non di tristezza. Non abbiamo mai avuto l’impressione che Martina rischiasse di lasciarsi andare, o che avesse la tentazione di abbandonarsi, semplicemente e in maniera passiva, alla morte; un concetto/tabù nella cultura occidentale, e in quella italiana e cattolica in particolare. Quella stessa cultura che ha difficoltà a considerare, in alcuni casi, la morte come un traguardo da raggiungere, una meta. Una liberazione da sofferenze atroci. Sapendo che l’Italia, su questo tema, è un Paese incerto, Martina ha iniziato, diversi anni fa, le procedure per accedere al suicidio assistito in Svizzera. E ha ricevuto la cosiddetta “luce verde”. In qualsiasi momento, una struttura oltre confine è pronta ad accoglierla. Ma per lei il suo diritto ad autodeterminarsi nel proprio Paese viene prima dell’atto stesso di porre fine alla sua vita. Prima della cessazione del dolore. Prima della fine delle sofferenze senza nome a cui la malattia la sottopone ogni giorno. Le abbiamo chiesto se avesse mai pensato al suicidio e la risposta ovviamente è sì. Ma, dice, “me lo ha sempre impedito il senso di colpa verso la mia famiglia, verso quelli che sarebbero rimasti a sbrigare le pratiche”. E se abbiamo capito bene il senso delle sue parole, per Martina la dignità nella morte vale almeno quanto la dignità in vita. Quando era più giovane, quando la malattia era ancora agli esordi, questa piccola e fermissima donna pensava, guardando verso l’orizzonte ancora lontano del suo futuro, che le sarebbe piaciuto guarire in primavera, a Venezia, ascoltando un’ouverture wagneriana. Oggi, Martina pensa che “sarebbe bello morire in primavera”. Come un fiore, senza far rumore. Nel momento in cui scriviamo questo testo, Martina è in attesa che il suo Paese le riconosca il diritto di morire.

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Emiliano Scalia