Noi e i ragazzi. La comune ansia di essere visti

Le similitudini tra noi e loro sono estese, prenderne coscienza ci avvicinerebbe, rendendo più facile trovare sintonie, meno complicato educarli. Essere visti, considerati, desiderati è il comune marchio di fabbrica, da qui bisogna partire. Una donna di cinquant’anni sogna di essere in viaggio col marito, ma a un certo punto lui non c’è più, è sparito. “Non mi spaventava la strada che dovrò fare, mi pesa l’abbandono”. Un ragazzino di 14 anni sogna di essere in ospedale circondato da amici venuti a fargli visita. “Dico loro di non preoccuparsi, che sto bene, ma in fondo mi fa piacere essere su quel lettino e attirare la loro attenzione”. Sfaccettature dello stesso desiderio, che ci lega più di quanto osiamo ammettere, se ne prendessimo atto, se accettassimo l’idea di essere diretti dalla stessa parte, non solo metaforicamente, la conflittualità intergenerazionale si ridurrebbe. Sono le sette meno venti, le sei e quaranta, d’inverno è ancora buio. A piedi procedo verso lo studio, un viaggio breve, poche centinaia di metri, più corto di quelli che affronteranno le persone che incrocio, già numerose a quell’ora. Donne e uomini che si recano al lavoro, in eguale misura ragazze e ragazzi diretti alla fermata del pullman che li porterà al capolinea della Metropolitana o alla stazione ferroviaria, dove prenderanno un passaggio per la scuola. Una scena silenziosa, pacifica, mi trasferisce serenità. L’inquietudine che siamo soliti attribuire ai nostri figli sembra assente o forse è solo bene amministrata. Sotto cappellini di lana, simili a quello che indosso io, spuntano le cuffiette senza fili. Il freddo lo sentono anche loro, ovviamente non è il solo punto di contatto con noi grandi. Spero cominci a diventare chiaro già da questo primo contributo. Fanno parte di un esercito di alunni e studenti, oltre sette milioni, che ogni mattina si recano a scuola, il loro lavoro, che insieme all’amicizia e all’amore, forma la triade dei compiti vitali, i tre peduncoli che danno senso all’esistenza e consentono, a noi e ai ragazzi, di intrecciare il destino con quello dei nostri simili. Di questa normalità, una sana normalità, si parla raramente. “La normalità non esiste”, mi dice una ragazzina di quindici anni, da tempo ospite di una comunità. “Ti sbagli, provare interesse per i propri simili è la normalità”, le rispondo, poi aggiungo che la sua inquietudine “nasce proprio da questa assenza”. Rimane in silenzio, come se avesse compreso. Non ne sono certo, forse voglio sperarlo, ma credo sappia in cuor suo che quando stiamo male lo spazio per gli altri si riduce, e non è una buona notizia perché staremo sempre peggio. Non essere visti ci avvilisce, è il movente di tante fratture, personali e relazionali, intime. Pure in questo ci somigliamo, ma nei ragazzi tale effetto è più drastico, loro non sanno ancora che le cose cambiano, così tendono a considerare definitivo il presente. Per questo, non essere visti quando si è ragazzi, apre una voragine. Un ragazzo venne a trovarmi dopo un grave incidente, che gli avrebbe lasciato danni neurologici importanti. Si era schiantato col motorino contro un camion uscito da uno stop. Dopo alcune settimane, trovò il coraggio di raccontarmi la verità. “È vero il camion stava uscendo dallo stop, ma io ero molto lontano, potevo frenare; invece, chiusi gli occhi e decisi di accelerare. La mia ragazza mi aveva lasciato la sera prima, ero disperato”. Una ragazzina si è lanciata dalla finestra di una casa al sesto piano, faceva la terza media, abitava proprio di fronte alla scuola. Quella mattina era rimasta a casa, la mamma era andata a lavorare. I genitori erano separati. Poi si era messa in attesa, risoluta, fino al momento in cui quello che dal giorno prima non era più il fidanzatino, uscì da scuola mano nella mano con la nuova amichetta. Forse sarebbe bastato qualche giorno, il tempo di incrociare un nuovo sorriso o un qualche motivo di fiducia, ma è difficile, il senso della definitività può diventare un meteorite, arrivano decisioni d’impulso, in questo caso irrimediabili. Ero stato chiamato dalla scuola nei giorni successivi, i genitori e gli insegnanti volevano parlarne. Non sono casi consueti, per fortuna, ma fanno rumore e, soprattutto, non smentiscono le similitudini tra noi e loro, solo che la disperazione pare indirizzarsi su bersagli diversi e mentre i ragazzi tendono a infierire su sé stessi, noi grandi rivolgiamo la nostra furia verso chi osa rifiutarci. I femminicidi appartengono per lo più al mondo adulto, per questo quando succede tra ragazzi la risonanza è grande. La continuità generazionale è innegabile, ne consegue che trattare l’età giovanile come se fosse un capitolo a parte della nostra esistenza non ci offre molte possibilità di fare progressi e ci impedisce di educare con senso di giustizia, perché lo stesso difetto è considerato con clemenza quando si manifesta in un adulto mentre diventa una stigmate intollerabile quando appare nel comportamento di una ragazza, di un ragazzo. C’è continuità anche con l’infanzia, infatti ciò che c’è di nuovo nei ragazzi non è affatto nuovo, ma semplicemente la “rivelazione” di quanto stava incubando quando erano più piccoli e che ora viene messo alla prova di collaudi sociali sempre più impegnativi e a rischio di rovesci dolorosi, come l’ambito sentimentale. Il transito dal rassicurante recinto familiare alla urticante vita sociale non è una tranquilla passeggiata, perché arriveranno prestissimo le prime smentite, che incrementeranno la paura di non essere all’altezza, si faranno duri i bisticci col proprio aspetto fisico e i dubbi sul proprio valore, accumulatisi nel corso dell’infanzia, da ora in avanti non saranno più solo dubbi. Noi adulti siamo preparati alla nostra sofferenza ma non tolleriamo la loro, vorremmo ripararli ma cadiamo in angoscia, non solo le madri. Un insegnante di scuola superiore, responsabile dell’area attenzione alla persona in una bella scuola superiore lombarda, quotidianamente alle prese con madri e padri, mi dice, quasi commossa, che “I genitori si sentono schiacciati dal peso dei problemi che vedono manifestarsi nei figli, una volta erano le madri a piangere ora anche i padri”. Non è una brutta notizia, un padre che piange è meglio di un padre indifferente. Vogliono educare e amare i loro figli, impresa assai più impegnativa di quanto fu per i loro genitori, perché gli ingredienti della minestra, le regole del gioco, sono cambiati. Quasi completamente. Sarebbe meglio affiancarli, con competenza, invece di metterli al muro incrementando il loro senso di colpa, rinunciando a fare spettacolo e rendere bersaglio di giudizi severi una generazione di adulti che si è trovata a fronteggiare la più grande rivoluzione nella storia della famiglia. Ma di questo parleremo, con calma, nei prossimi appuntamenti. Ragionando e senza intentare processi. Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, rappresenta una voce autorevole nel panorama della psicologia italiana. È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra questi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, fino ai recentissimi “Volere Bene. La mente e il cuore” e “Individualisti si cresce" . Nella sua produzione sono presenti il romanzo di formazione “La casa di Henriette” e la collana illustrata di psicologia “Crescere senza effetti collaterali” , quest’ultima tradotta in diversi paesi, ultimo dei quali la Cina. È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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