Centri antiviolenza cercasi: in Italia ne mancano circa 220

In Italia esistono 404 centri antiviolenza : 150 di questi sono stati aperti negli ultimi sette anni, di cui 13 solo nel 2023. Nonostante questa crescita, secondo un report elaborato dal think tank Tortuga, solo il 23% delle province raggiunge gli standard minimi della Convenzione di Istanbul, che prevede un centro ogni 50.000 donne. Meno di una su quattro. Per raggiungere i livelli minimi, il 77% delle province italiane deve dotarsi di almeno un CAV aggiuntivo, con le città metropolitane di Roma, Torino e Milano che richiedono rispettivamente, 10, 11 e 12 nuove strutture. La situazione in Europa La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota anche come “Convenzione di Istanbul”, dal nome della città in cui è stata approvata nel 2011, rappresenta il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza. In particolare, tra gli articoli dedicati alla protezione e al supporto delle vittime di violenza, la convenzione stabilisce che i paesi firmatari debbano mettere a disposizione servizi di supporto specializzati che offrano aiuto nel breve e nel lungo periodo. Il Consiglio d’Europa raccomanda un “counselling centre” per vittime di violenza domestica ogni 50.000 donne. In Italia questo tipo di servizi sono affidati principalmente ai centri antiviolenza, nati a partire dagli anni Ottanta su iniziative di numerose associazioni di donne. Come ricordano gli autori e le autrici del report, “per i loro primi decenni di storia, i centri antiviolenza sono stati gestiti interamente dalle Ong femminili – dal loro finanziamento all’implementazione delle attività. A partire dalla ratifica della Convenzione di Istanbul, le istituzioni pubbliche in Italia, come regioni, province, comuni e aziende sanitarie, hanno iniziato a collaborare attivamente con i centri antiviolenza, promulgando leggi regionali, offrendo strutture e stringendo convenzioni per gestire i centri in sinergia con le associazioni”. Ancora oggi, la maggior parte dei centri antiviolenza viene aperto da associazioni o cooperative. In particolare, dei 13 nuovi centri varati nel 2023, 10 risultano gestiti da associazioni o cooperative impegnate al contrasto della violenza di genere e 3 sono in capo a enti locali come comuni o regioni. CAV: in Italia ne mancano circa 220 Incrociando i dati forniti dall’ISTAT sulla popolazione femminile di almeno 14 anni e quelli raccolti da Differenza Donna, l’associazione che gestisce il numero di pubblica utilità 1522, insieme ai referenti regionali e all’Istat nella Mappatura 1522, il report di Tortuga segnala che, quasi tredici anni dopo la ratifica della Convenzione di Istanbul, in Italia esiste un centro antiviolenza ogni 67mila donne . Sulle 107 province italiane, solo 25 raggiungono i livelli minimi richiesti: meno di una su 4. Si avvicinano all’obiettivo 19 province, ma più della metà sono lontane. Anzi, 28 province hanno meno della metà dei centri necessari, ovvero un centro ogni 100 mila o più donne. In base ai dati raccolti, alcune regioni, come il Molise e l’Umbria, rispettano gli standard, mentre altre, come Emilia-Romagna, Sicilia, Veneto, Piemonte e Lombardia, necessitano di almeno 20 nuovi centri ciascuna. Ma la presenza di un centro antiviolenza rappresenta solo un primo passo: bisogna considerare anche quanto sono accessibili questi luoghi per le donne che subiscono violenza, in termine di distanza dal comune di residenza e orari di apertura. Isole: meno del 16% dei comuni coperti da un CAV entro 10 km La violenza di genere si manifesta in modi diversi: molti di questi riguardano la limitazione dell’autonomia delle donne che la subiscono. Avere un centro antiviolenza vicino a casa, raggiungibile anche in assenza di un veicolo proprio, risulta quindi molto importante. In particolare, come riportano gli autori e le autrici del report, “la distanza di 5 km è considerata ragionevolmente percorribile a piedi o in bicicletta, mentre distanze di 10 e 20 km potrebbero essere coperte mediante trasporto pubblico o veicoli privati. Entro i 40 km, la maggior parte dei comuni dispone di almeno un centro, ma questa distanza potrebbe rendere il CAV difficilmente accessibile per chi non ha la possibilità di un trasporto indipendente, data la durata degli spostamenti”. In base ai dati raccolti nella Mappatura 1522, in Italia solo il 22,8% dei comuni dispongono di un CAV entro 5 Km: nelle isole, la copertura scende tuttavia al 15,6%. Al contrario, il Nord-Ovest e il Sud presentano una maggiore densità di centri entro le distanze più brevi. Anche la disponibilità oraria dei CAV resta un indicatore importante: in media, i centri sono aperti 5 ore al giorno nei giorni feriali e il 70% è aperto o il sabato o la domenica.Esistono, tuttavia, notevoli differenze territoriali. Le regioni del Nord dispongono di una minore copertura durante i fine settimana, con il 40% dei centri aperti nel weekend. Il Sud, invece, presenta il numero più alto di giorni di apertura nel weekend , ma con una media di ore infrasettimanali più bassa . Al contrario, il Centro ha una maggiore apertura infrasettimanale e giorni di apertura settimanale più alti . Come viene sottolineato nel report, tuttavia, “sebbene orari più estesi possano facilitare l’accesso ai servizi, non sempre costituiscono un indicatore diretto della qualità del supporto offerto. Le principali organizzazioni attive contro la violenza di genere, infatti, mettono in guardia contro un’enfasi eccessiva sugli orari di apertura, ritenendo che la qualità dei servizi dipenda anche da fattori come la presenza di protocolli specifici e la formazione del personale”. Rispetto alla composizione del personale, secondo i dati Istat, ogni centro coinvolge in media 15 persone, con grandi differenze regionali: in Lombardia e Piemonte si raggiungono rispettivamente 22 e 26,5 persone, mentre in Campania e Sicilia il numero scende a 6,5 e 7. Anche il rapporto tra personale retribuito e volontario presenta forti disparità: in Sicilia e Liguria due persone su tre sono volontarie, mentre in Calabria e Abruzzo prevale il lavoro retribuito. “Se da un lato il contributo volontario rispecchia le linee guida della Convenzione di Istanbul, dall’altro una scarsa professionalizzazione può compromettere la stabilità e l’efficienza dei centri, mettendo a rischio la loro funzione essenziale nel contrasto alla violenza di genere”, segnalano i membri del think tank Tortuga nel report.

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