Perché il femminismo è anche una cosa da uomini

Nella marea fucsia che sabato 23 novembre ha inondato Roma in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, gridavano e manifestavano anche migliaia di uomini. “Non tutti gli uomini ma sempre gli uomini”, recitava un cartello in mano a un ragazzo. E soprattutto – aggiungeremmo – “tutte le donne”, come recitava l’hashtag con cui per anni migliaia di donne hanno condiviso online storie di misoginia e violenza subita. I dati lo confermano: per gli omicidi legati a contesti violenti in ambito relazionale sono condannati autori maschi nel 98,3% dei casi, contro l’1,7% delle donne . Ma, al di là dei numeri, “il contrasto alla violenza sulle donne deve passare anche dagli uomini – sostiene Lorenzo Gasparrini, filosofo femminista e formatore – Non serve dare la colpa ad altri, ma intercettare le piccole forme di abuso che perpetriamo, chiamarle con il proprio nome e impegnarci a risolverle”. Quindi, il femminismo è anche una cosa da uomini? Sì, senza dubbio. Perché il femminismo è una visione da fuori, critica, su come sono costruite le identità di genere. Ed è proprio con questo sguardo altro, che non riesci ad avere stando dentro al genere, che capisci la costruzione culturale in cui sei immerso. E cosa può vedere l’uomo con uno sguardo femminista? Il privilegio maschile. E non parlo di persone che hanno una vita felice perché hanno un diritto formalmente assicurato. Ma di uomini che riescono a esercitare più tranquillamente il proprio diritto in quanto maschi. È ancora più evidente in condizioni di difficoltà: se sei un uomo disoccupato, hai più possibilità di tornare al lavoro rispetto a una donna. Questo non accade per tua volontà, certo, non c’è responsabilità nel nascere con il privilegio. E quali sono, allora, le responsabilità degli uomini? Quando possiamo compiere una scelta e non lo facciamo. Quando i numeri ci ricordano l’entità di questo fenomeno sociale di abuso e violenza e decidiamo di tenerci il privilegio senza farci niente. Servono comportamenti nuovi. Mi fa degli esempi? Sul luogo di lavoro si può far notare al dirigente che la collega, con le stesse mansioni, guadagna meno di noi. Oppure, nelle situazioni conviviali, quando ci si accorge che è sempre un uomo che interrompe quello che sta dicendo una donna, si può intercettare quell’atteggiamento e farlo notare. Per segnalare che, in questo modo, si svaluta l’altra persona. Faccio l’avvocato del diavolo. Perché fare a meno di un privilegio economico e sociale? Perché quella stessa cultura che te lo dà ti toglie moltissimo. Ti chiede, come uomo, di essere sempre performante nel tuo lavoro, nella tua vita sociale. Ti chiede spesso di essere freddo, di prendere decisioni logiche, di non piangere o lamentarti. E questo spesso si traduce nell’incapacità di gestire le proprie emozioni e relazioni, capacità fondamentali nella vita di ogni uomo. Anche sul lavoro: molti uomini perdono la vita in cantieri o in ambito agricolo facendo errori dovuti al perpetrare di modelli di mascolinità forte. Pensiamo solo a tutti gli operai che non indossano il caschetto. Non c’è il rischio, per gli uomini che vogliono cambiare questi modelli, di sentirsi smarriti o soli nei propri gruppi sociali? Sì, ma ci sono delle strategie per affrontare la sensazione. La prima è concedersi dei momenti con gli amici in cui si parla dei nostri problemi. Parlare con i congeneri ci fa capire che questa forma di problema l’abbiamo tutti. Magari possiamo partire da situazioni difficili al lavoro oppure nelle nostre relazioni, senza timore di mostrarsi deboli. C’è qualcosa nel nostro interpretare il maschio che non funziona e il primo passo è parlarne. Non possiamo continuare a puntare il dito altrove: non è colpa di quella ragazza “se non ha riso alla battuta che ho fatto”. Ecco, parliamo di comportamenti quotidiani. Perché il catcalling è problematico? Sono molestie verbali, fischi o allusioni in pubblico. Non stai semplicemente approcciando una ragazza, perché altrimenti ti comporteresti diversamente. Stai pubblicamente mostrando che hai un potere sul corpo di quella persona. E lo stai facendo con parole rivolte a chi assiste alla scena per affermazione personale. E son tutte parole non richieste. Lo stesso vale per i gesti di cosiddetta galanteria? In questo caso, è importante condividere esplicitamente un contesto. La cavalleria non può essere un modo per imporre un mio atteggiamento sulla donna, che dovrà reagire di conseguenza. Ovvero come mi aspetto io. La gentilezza è altra cosa. “Perché ti trucchi? A me piaci così” era una delle frasi cui stare attenti, secondo la campagna dell’Emilia-Romagna per la sensibilizzazione contro la violenza di genere. È problematica? Sì, rischia di essere un’affermazione manipolatoria. Perché la donna, come l’uomo, è libera di essere esattamente come preferisce e come si piace. Altrimenti potrebbe sentirsi apprezzata solo se conforme alle aspettative dell’uomo. Mi dà un’alternativa? Certo, si potrebbe fare una domanda: “Ti piaci di più con o senza trucco?”. Così si è già perso ogni rischio di manipolazione. La violenza degli uomini sulle donne, dunque, è un fatto culturale? Sì, non sono i muscoli a renderli violenti ovviamente. Sono i valori che attribuiamo alle differenze fisiche che creano il problema. Se ho più massa muscolare di una donna, farò tutta una serie di lavori che lei non è in grado di fare? Forse era vero secoli fa, non ora. Prendiamo il caso della gravidanza: il fatto che le donne partoriscano significa che quella è la missione del loro corpo? No, ovviamente, è una scelta. L’uomo deve riconoscerlo e imparare a distinguere queste cose. Quindi, serve che anche gli uomini manifestino contro la violenza sulle donne? Certo, per le donne. Ma anche per noi uomini, perché queste costruzioni sui generi non funzionano più nemmeno per noi.