Orfani di femminicidio, Valentina Belvisi: "Noi invisibili, lasciati soli dallo Stato"

Sono figli invisibili. Dimenticati. Lasciati soli a gestire un dolore sconfinato, troppo spesso senza gli strumenti necessari per ricominciare. E invece, di supporto - sia psicologico che economico - hanno bisogno subito. Dietro a ogni femminicidio c’è quasi sempre un bambino che all'improvviso diventa un orfano sia di madre che di padre. Ma il sostegno che ricevono non è abbastanza. Valentina Belvisi aveva 24 anni quando scoprì che sua madre Rosanna era stata uccisa dal marito con 29 coltellate. Era il 17 gennaio 2017 e lei, figlia unica, si ritrovò da un giorno all'altro senza genitori. Come se non bastasse, venne lasciata sola: senza parenti su cui fare affidamento da entrambe le parti, nemmeno lo Stato intervenne. Al punto che quando venne dissequestrato l'appartamento in affitto dove vivevano i suoi genitori si ritrovò persino a dover pulire il sangue di sua madre. L’omicida, Luigi Messina, è stato condannato a 18 anni di carcere: per Valentina, che ha immediatamente interrotto i rapporti con lui, una pena “vergognosa”. Da sette anni la figlia di Rosanna Belvisi vive e lavora a Thiene, in provincia di Vicenza, dove ha conosciuto suo marito e ha avuto un bambino. Da subito ha scelto di cambiare il cognome con quello di sua madre. Mentre chiama “Luigi” il suo padre biologico, perché padre non è più. Oggi è ambasciatrice di Edela, associazione no profit a sostegno degli orfani di femminicidio, perché non vuole che nessun orfano sia più lasciato solo. Come è successo a lei. Valentina, cosa accadde dopo il femminicidio di sua madre? Chi le diede supporto? Nessuno della mia famiglia, né il Governo. Le uniche persone che mi aiutarono furono le colleghe di ufficio di mia madre, che lavorava all’Inps: pagarono loro il funerale perché io avevo appena iniziato a lavorare e non me lo potevo permettere. Mentre per il trasloco mi diede una mano un’associazione a cui mi sono rivolta. Furono tutti aiuti esterni: lo Stato per me non c’è mai stato. Pensi che spesi addirittura 9 mila euro in avvocati. Oggi non lo rifarei, ma in qual momento mi trovavo da sola nel buio più totale. Quindi non si è attivata nessuna rete di sostegno. No. Nessuno si interessò di me. Se avevo una casa, se mangiavo, se ricevevo un supporto psicologico o economico. Una volta che hanno condannato Luigi è finito tutto. Ho trascorso anche un periodo in albergo, poi fortunatamente tramite un’amica che era fidanzata con un ragazzo veneto trovai un aggancio per trasferirmi qui, a Thiene, dove ho provato a ricominciare, ma all’inizio è stata durissima: non avevo una macchina, non potevo permettermi di pagare un affitto. Nel momento in cui stavo per andarmene ho incontrato quello che sarebbe diventato mio marito, e le cose sono cambiate. Sua madre è stata vittima di violenza per anni. Lei assisteva alle violenze? Sì, lui era violento sia con lei che con me. Violenza fisica e soprattutto psicologica. Io per lei avevo paura, infatti ci sentivamo costantemente quando non eravamo insieme. Convivevo con quella paura in costante allerta, sperando sempre che non accadesse il peggio. Sua madre è stata vittima anche di violenza economica. Lavorava come impiegata, Luigi invece era disoccupato ma gestiva i suoi soldi. Esatto. Lei era indipendente economicamente, aveva il suo stipendio. Lui invece no, ma gestiva il conto in banca di mia madre. Pensi che con quello stipendio ci ha fatto un sacco di cose, ci ha anche mantenuto l’amante e un altro figlio di cui non sapevamo niente. Un giorno dietro il cortile di casa lo trovai con questa donna e un bambino: scoprimmo così che aveva una seconda famiglia. Ha scritto un libro sulla sua, la vostra storia, “Rinasco per te”. Cosa l’ha spinta a raccontarla? La speranza di poter essere utile ad altre donne. Mi auguro che raccontare le violenze continue che mia madre e io abbiamo subito per anni possa far accendere dei campanelli di allarme per altre persone che stanno vivendo situazioni simili, e riconoscere quella violenza. Spesso riconoscerla è la parte più difficile. Spero che la nostra storia possa essere una spinta per reagire, per trovare quel coraggio di dire “basta”, che mia madre non riuscì a trovare. Era dentro una spirale di violenza che non è riuscita a rompere in tempo. Oggi si occupa del sostegno di altri orfani di femminicidio. Essere invece ambasciatrice di Edela mi ha aiutato a vivere il dolore in maniera diversa. Lì ho trovato finalmente rete di supporto, e posso essere anche di aiuto agli altri. Vorrei che un giorno questa missione possa diventare il mio lavoro: supportare altri bambini orfani di femminicidio. Edela, come un'associazione supporta gli orfani Edela è stata fondata nel 2018 per accendere un faro sugli orfani di femminicidio, per dare voce anche a loro, spiega a Sky TG24 Insider la presidente Roberta Beolchi. "Giustamente la cronaca dettaglia i fatti delle donne uccise, ma mi sono chiesta: se l’80% di queste donne è madre, dove sono i loro figli?". Quello che vivono gli orfani di femminicidio "è un dramma nel dramma, perché oltre a perdere i genitori vengono anche lasciati soli. E non possiamo permetterlo". La legge per tutelarli - la numero 4 del 2018 - è un unicum in Europa, ma gli ostacoli burocratici complicano l'accesso ai benefici: "La burocrazia che c'è dietro è infinita. E se già un importo di 300 euro mensili non è sufficiente, è assurdo che molte vittime ci rinuncino a priori per evitare la trafila di moduli e scartoffie che sembra non finire mai", spiega la presidente. E anche in questo consiste il supporto di Edela: "Quando veniamo contattati dai sindaci o dai familiari degli orfani interveniamo per compilare la modulistica, capiamo se hanno bisogno di un intervento psicologico immediato, anche questo previsto per legge. Cerchiamo di supportarli nel tentativo di continuità di una degna vita quotidiana". Associazioni come Edela sono fondamentali, ma non possono sostituirsi alle istituzioni. "Lo Stato deve stare accanto a questi orfani, perché sono orfani di Stato. Soprattutto nei casi di quelle madri che hanno denunciato e non sono state tutelate". Con Edela vi occupate di giovanissimi che si portano dietro ferite insanabili. Gli orfani di femminicidio sono tutti quei bambini con un meno davanti: meno amore, meno casa, meno soldi, meno progetti. Il padre non solo ha ucciso la mamma, ha ucciso anche loro. Ed è un dovere civile e democratico rendergli almeno la vita il più normale possibile, anche se di normale resta poco. Cosa accade nei casi in cui non ci siano nonni o parenti a potersi occupare degli orfani? In quei casi interviene immediatamente il tribunale per i Minorenni, che valuta appunto se le famiglie di origine siano in grado di prendersi in carico questi bambini. I piu fortunati hanno i nonni materni, con cui si cerca di lasciarli perché resti un filo diretto con la mamma. Per i meno fortunati invece i luoghi che li accolgono sono le case famiglie. Posti delicati e complessi, a volte putroppo non accoglienti come dovrebbero essere. Capita anche che i fratelli vengano separati, spediti in regioni diverse. Per i più fortunati restano i nonni. Ma anche a loro spetta un compito difficile, non sempre con gli strumenti adatti ad affrontarlo. Esatto. Mi preme ricordare alle istituzioni che occorre mantenere integra la dignità anche di questi nonni materni che si prendono cura di nipoti come fossero figli, e magari si ritrovano a 80 anni a dover fronteggiare grosse difficoltà. Intanto una madre a cui è stata uccisa una figlia ha già il suo enorme dolore da gestire. E non può neanche permettersi di soffrire per garantire una minima apparente normalità a questi ragazzi. E anche fisicamente, da anziani è molto difficile. Quali sono le principali criticità della legge a tutela degli orfani? Senza dubbio la burocrazia. Quando avviene un femminicidio lo Stato dovrebbe intervenire già dal giorno successivo con un'indennità che arrivi immediatamente alla famiglia che si prenderà cura dell'orfano. Non dopo mesi o anni. Non è possibile che i parenti debbano anche avere la preoccupazione ulteriore di sentirsi soli, e di dover disporre delle risorse economiche necessarie. I familiari devono poter affrontare il proprio dolore, e poi lavorare sull’affettività di questi bambini. Non preoccuparsi di moduli e prefetture. La scuola è uno strumento cruciale per il loro percorso. Assolumente, ma anche qui possono nascere delle difficoltà. Abbiamo seguito ragazzi che quando è morta la madre avevano 13 o 14 anni e hanno preferito lasciare la scuola per vergogna: venivano apostrofati non come figli di una vittima, ma figli di un criminale. Questo significa rischiare di finire in strade tortuose: un’emergenza in un’emergenza. Le ferite di questi bambini si potranno mai rimarginare? È una domanda difficile. La vita degli orfani è una vita in salita, tortuosa: loro sanno di camminare senza le gambe. Però l'immediatezza e la concretezza degli interventi può dare loro un grande contributo. Con Edela ci siamo anche occupati di bambini di 18 mesi che non hanno fatto in tempo a capire quello che è accaduto, che potranno crescere con un peso minore. Se seguiti e sostenuti, comunque, tutti ce la possono fare: ne conosciamo tanti che studiano, lavorano, si sposano e diventano genitori. Una spaccatura nella loro anima resterà sempre, ma grazie agli strumenti giusti possono guadagnarsi un'indipendenza, e vedere davanti a loro un percorso tutto da costruire.