Cascina Vita Nova, a Milano una casa per i senzatetto e i loro cani. La storia di Yousi

Cronaca
Ludovica Passeri

Ludovica Passeri

Nella periferia ovest della città, Progetto Arca ha dato vita a un centro che accoglie persone senza dimora con cani. Una delle ospiti della struttura ci ha raccontato la sua vita tra Cuba e l'Italia: una storia di discriminazioni, di amore per la musica e per gli animali

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A Milano, nel quartiere Baggio, è nato un centro che ospita persone senza dimora con cani. Si chiama Cascina Vita Nova e offre un percorso di autonomia a quegli homeless che hanno difficoltà a trovare rifugio nelle strutture d’accoglienza ordinarie, dove normalmente gli animali non sono ammessi.

(QUI IL LINK DEL VIDEO VOICE - UNA CASA PER LE PERSONE SENZA DIMORA E PER I LORO CANI)

Vivere in strada con un cane

Per chi vive in strada, ci spiega Paolo La Marca, educatore di Progetto Arca, l'associazione che ha dato vita e forma al rifugio, un cane rappresenta “compagnia, affettività, ma significa anche avere qualcuno che ti difenda di notte, che faccia la guardia quando sei più vulnerabile. Alcuni hanno adottato il compagno animale sulla strada, c’è chi invece lo ha comprato da qualcun altro per salvarlo dai maltrattamenti, ma ci sono anche persone che hanno perso la casa e si sono ritrovate sole con il proprio amico a quattro zampe che è diventato da un giorno all’altro l’unico punto di riferimento”, spiega La Marca. Ogni ospite della struttura, che per ora ha 9 miniappartamenti, ha alle spalle quello che gli assistenti sociali chiamano “un evento maggiore traumatico, un fatto che ha mandato all’aria la loro struttura di vita”. L’elenco è lungo: dalle separazioni ai lutti gravi, passando per la malattia e per la perdita del lavoro in assenza di una rete sociale e familiare di sostegno. L’obiettivo del progetto è quello di accompagnare gli ospiti verso l’autonomia: il primo passaggio è il reinserimento lavorativo per potersi permettere un affitto di tasca propria e ricominciare da capo con il sostegno degli assistenti sociali che seguono passo passo il percorso.

La Yousi

Appena entriamo nel monolocale di La Yousi(60 anni), luminoso e ordinato, ci troviamo davanti a una grande foto in bianco e nero. Nello scatto La Yousi appare sofferente: rannicchiata a terra, abbraccia la sua bassottina Lucrezia. “È la foto del periodo in cui ero senza dimora e vivevo in una cantina, racconta tutta la sofferenza di quel momento. Ho voluto appenderla all’ingresso per non dimenticare quello che è stato”, ci racconta. “Ho sempre lavorato nel mondo dello spettacolo facendo animazione, ma quando è arrivato il Covid, tutti i locali hanno chiuso e ho perso il lavoro e poi la casa. Lì sono inziate le peregrinazioni da un amico all’altro, due giorni qua e due giorni di là. Sono finita a dormire in una cantina. Poi mi hanno trovato un posto in una struttura d'accoglienza. Lucrezia però non poteva entrare, ma io me la sono portata dietro lo stesso e l’ho nascosta”, confessa.

La solitudine

La Yousi si è ritrovata sola: “Tanti che ritenevo amici sono spariti”, ammette. Lucrezia le è stata sempre accanto. “Già è con me da 4 anni. Una mia amica aveva questa cagnolina che non andava d’accordo con nessuno e morsicava tutti, era un disastro. Mi chiesero di portarla al canile. Quando arrivammo, lei tremava, poverina. Ho detto alla signora del canile che me la sarei portata a casa per fare un tentativo: è stato magico l’incontro che abbiamo avuto, abbiamo creato subito una connessione”. Mentre La Yousi accarezza Lucrezia, continua a ripetere: “Questo animaletto è qualcosa a cui tengo troppo”. Non trova le parole per descrivere il legame che si è creato. Lucrezia è famiglia.  In Cascina Vita Nova, non ha trovato solo un letto caldo e un posto in cui anche Lucrezia sia accettata, ma un condominio di amici : “Con gli altri ospiti non ho mai sentito l’ombra del pregiudizio. Siamo tutti sulla stessa barca e ci aiutiamo. Condividiamo il cibo e i nostri piatti tradizionali. È uno scambio spirituale e materiale”.


Un percorso difficile

Per una donna trans le difficoltà sono doppie. E la vita di dormitorio può diventare un incubo “Non mi volevano né nel reparto donna, perché dicevano che non ero donna, e neanche nel reparto uomo, perché dicevano che non ero uomo. Alla fine mi hanno messo isolata in uno scantinato. È stato massacrante”, dice. La Yousi racconta gli episodi di discriminazione con ironia, un modo per esorcizzarli. Ride quando parla dei pregiudizi che ha subito come donna trans e poi ancor di più come donna trans senzatetto. Sorride quando ritorna con la mente alla sua infanzia e adolescenza a Cuba, in particolare negli anni Sessanta e Settanta, in cui le persecuzioni del castrismo e un clima culturale conservatore rendevano la vita impossibile a chi era diverso. La musica è stata la sua forma di liberazione e riscatto. 

 

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L'arte che salva

“La mia passione era la danza classica. Già a 3 anni cominciai a imitare le ballerine e ballerini della televisione. Mio babbo che era musicista, come del resto i miei fratelli, non approvava. Aveva una mente carica di pregiudizio. Già da piccola era chiaro il mio orientamento, a cinque anni era definito. Volevo essere donna”. In famiglia il modo di essere di La Yousi, al tempo Luis, non era accettato. “Mi hanno fatto fare karate, pugilato, ma io non volevo. A 14 anni mio zio che era tenente colonnello mi ha messo in una scuola militare per formarmi il carattere, diceva lui, ma da lì mi hanno subito cacciato perché il militare non era fatto per me”.

 

"Vola!"

L’avventura con il pianoforte inizia per caso: “Sono entrata nel mondo della musica perché avevo degli amici che volevano iscriversi a una scuola, io li ho accompagnati. La direttrice mi ha invitato a fare il provino ma io non volevo. Finì che gli altri tre furono bocciati e io passai. Scelsi il pianoforte, è iniziato così questo grande amore che non tradisce mai”. Per anni La Yousi è passata da un’orchestra all’altra: “Mi cacciavano per via per il mio modo di essere fino a che mi hanno chiesto di entrare in un trio e, grazie a quel trio, un turista che stava inaugurando un locale a Milano che si chiamava Havana ci ha intercettato. Voleva che lo seguissimo in Italia. Uno dei tanti direttori d’orchestra che ho avuto per convincermi a partire mi disse: Yousi è l’unico modo per liberarti da questo pregiudizio: vai e vola!”. Ci saluta suonando due pezzi al pianoforte. Il primo è "La Comparsa", una composizione cubana che racconta la sofferenza e la stanchezza degli schiavi che tornavano dal duro lavoro ma che nonostante tutto avevano voglia di cantare. Poi cambia spartito, ne sceglie uno che ha almeno trent'anni ed è consumato: Chopin, la sua più grande passione. Perché La Yousi ha sempre sognato di essere una pianista classica, anche se in famiglia si prediligeva la musica popolare cubana. Mentre suona, Lucrezia la ascolta acciambellata sul divano.

 

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