I ragazzi invisibili, viaggio tra i giovani che vivono in strada

Cronaca
Ludovica Passeri

Ludovica Passeri

Conflitti familiari, solitudine, fragilità personali, traumi, precariato: quando si fa buio, nel centro e nelle periferie delle nostre città, le statistiche descritte dai report prendono vita. Abbiamo raccolto a Milano le storie dei ventenni e trentenni ai margini

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Un tatuatore di 26 anni con alle spalle una storia familiare complicata e il carcere; un aspirante parrucchiere di 24 che, per mesi interi, ha vissuto su un autobus; un trentenne disoccupato, a rischio sfratto, che non riesce più a pagare le bollette e che la sera si mette in fila per un pasto caldo con le cuffie al collo: migliaia di giovani, che non hanno una casa o una famiglia da cui tornare, si svegliano, mangiano, dormono nelle strade, nei parchi, negli edifici abbandonati delle grandi città italiane. Li abbiamo incontrati a Milano nelle notti di gelo di febbraio, un appuntamento annuale a cui ci si può sottrarre grazie al Piano Freddo. I più fortunati hanno un letto caldo in una struttura d’accoglienza notturna, ma quella dei dormitori non sempre è una soluzione presa in considerazione per via degli orari rigidi, dell’assenza di privacy e della convivenza forzata con estranei. Secondo la Federazione Italiana degli Organismi per le Persone senza Dimora (fio.PSD), che monitora gli accessi ai servizi per le persone in difficoltà, nel post pandemia l’aumento degli homeless dai 18 ai 34 anni è stato del 10%.

(VIDEO VOICE - "I RAGAZZI INVISIBILI. GIOVANI CHE VIVONO IN STRADA)

 

I NUMERI

Un fenomeno di cui è difficile stabilire i contorni. Recentemente ISTAT ha diffuso un Censimento permanente della popolazione “senza fissa dimora” basato sul possesso del requisito giuridico della residenza, ma se parliamo di homelessness, la condizione di povertà, emarginazione estrema e disagio sociale di chi è in strada e ha bisogno di assistenza per sopravvivere, dobbiamo risalire a un report del 2015: una raccolta di dati ormai obsoleta che resta però la più accurata che abbiamo a disposizione. “Si stimava che i giovani fossero circa 15mila (per l’esattezza 15.612 nel 2011 e 13.012 nel 2014). Istat ci diceva che una persona senza dimora su 4 aveva tra i 18 e i 34 anni. Si trattava per lo più di ragazzi stranieri, probabilmente provenienti dalla rotta africana che arrivavano in Italia per motivi di lavoro e per ricongiungersi ai propri familiari. Oggi invece – spiega Caterina Cortese, sociologa e responsabile dell’Osservatorio fio.PSD – i dati che raccogliamo attraverso il nostro Osservatorio ci portano a rilevare un trend in aumento: crescono di circa il 10% i giovani che si rivolgono ai servizi per senza dimora”. Parliamo di mense, dormitori, servizi di strada che offrono un pasto caldo o aiuti di qualsiasi tipo, dal cibo alla biancheria. Secondo l’esperta, ci troviamo di fronte a un dato preoccupante: “Si tratta a volte di giovanissimi che non superano i 25 anni, non solo stranieri ma moltissimi italiani. Quello che vediamo in strada potrebbe essere la punta dell’iceberg di un fenomeno che ha radici e dei numeri più profondi. Basti pensare ai 3 milioni di Neet che abbiamo in Italia, ovvero giovani che non sono impegnati né in attività formative né lavorative”.

 

 

HIDDEN HOMELESSNESS

“L’homelessness giovanile spesso è invisibile ai nostri occhi. Quando i ragazzi, pieni di grinta, si trovano in difficoltà e non riescono a realizzare i propri obiettivi – spiega Cortese –   preferiscono rivolgersi a qualche conoscente o amico per trovare rifugio e riparo; quindi, non vengono intercettati subito dai servizi sociali”. Non è un caso se nei report si parla di loro come di “hidden homeless”, senzatetto nascosti. Quando sono costretti a dormire per strada, si tengono lontani da occhi indiscreti: prediligono parchi e uffici pubblici in cui è facile intrufolarsi di giorno e restare nascosti di notte. Chiedono aiuto ai servizi per l’assistenza ai senza dimora solo quando la situazione diventa insostenibile. Spesso sono sprovvisti dei segni di riconoscimento tipici di chi vive in strada: niente barbe incolte; borsoni neri da palestra sostituiscono le classiche valigie e buste della spesa; uno stile trasandato che può essere confuso con la moda del momento. Sfuggono anche per questo alle rilevazioni e allo sguardo dei passanti.

 

LE RAGIONI

Con una certa superficialità, si tende a ridurre l’homelessness giovanile alla tossicodipendenza, che trasforma rapidamente un giovane pieno di speranze in uno sbandato, o all’immigrazione, che costringe tanti ragazzi a lasciare casa e a recidere legami, ma l’elenco delle cause che portano un ventenne a vivere in strada è lungo. “Ragazzi che fuoriescono dagli istituti e dalle comunità d’accoglienza per minori al raggiungimento della maggiore età, ma che non sono pronti ad affrontare la vita adulta in autonomia. Giovani che  – continua Cortese – vivono conflitti profondi con le famiglie di origine ma anche con le famiglie adottive. Ragioni legate a dipendenza, fragilità personali, traumi che, se non accompagnati da un sistema familiare solido, possono portare i ragazzi a finire in strada, ma ci sono anche altri fattori come povertà da lavoro o il lavoro povero”. Non si può dunque prescindere dalla congiuntura economica e dalla precarietà a cui è condannata un’intera generazione che arriva fino ai neoquarantenni di oggi: anche loro sono stati una presenza costante nei nostri pellegrinaggi notturni. Di notte avvolti nei sacchi a pelo blu agli angoli delle strade e di giorno lavoratori precari o magari pagati a giornata. “Finiscono in una specie di terra di mezzo: non hanno le risorse per farsi una famiglia, né per pagarsi un affitto. Si trovano nelle grandi città a tentare di raggiungere un sogno di autonomia economica che si rivela spesso irraggiungibile e di fronte a un mercato del lavoro che ci costringe ad accettare delle condizioni precarie stagionali, informali, temporanee”, sottolinea Cortese.

 

LE STORIE

Quando si fa buio, le statistiche prendono vita e i casi studio diventano di carne e ossa. Nella prima “unità di strada” a cui ci uniamo, la cellula di volontari che a piedi perlustra le vie dei quartieri per dare una mano a chi ha bisogno, conosciamo un ventinovenne nato in Europa dell’Est e cresciuto in Italia in una casa-famiglia. Al compimento dei 18 anni, si è ritrovato solo: da quando ne ha 22 è in strada. “E pensa che io neanche mi drogo!”, esclama con una ironia amara che punta ad allontanare in anticipo il sospetto. Dei dormitori non ne vuole sapere, per via delle brutte esperienze collezionate nel passato: “Eravamo in uno stanzone, in sei. Ti immagini la puzza?”, risponde così quando gli chiediamo di raccontarci la sua esperienza. I documenti sono uno scoglio per i senzapatria come lui, che del suo paese di origine conserva solo la lingua e una manciata di ricordi. “Qualche lavoretto, nonostante tutto, si trova, ma mantenerlo è difficile. Quando non puoi lavarti tutti i giorni, finisci prima o poi per non essere presentabile e arriva il momento in cui ti cacciano”.

 

Come lui, Youssef (34 anni), ospite di Casa Jannacci, struttura gestita dal comune di Milano. Lo incontriamo durante una delle tante attività organizzate dal centro diurno e dirette dagli assistenti sociali che accompagnano gli utenti più motivati nella transizione dal centro di accoglienza alla vita in autonomia. Anche Youssef, in Italia da quando ha 11 anni, ha vissuto in modo traumatico il distacco dalla casa-famiglia: “Gli educatori erano un po’ come i miei genitori”, ci confessa. Il ritorno in Marocco dopo tanti anni è la goccia che fa traboccare il vaso: “Oramai avevo un’altra mentalità, per loro ero diverso, uno straniero. Sono scappato”. Di nuovo a Milano, entra in una spirale di droga, di alcol e di strada che lo porta nel baratro. “Pensavo di non servire più, che quello fosse il mio destino”, ricorda. Accetta di essere ripreso a volto scoperto, perché è sicuro che il peggio sia passato e che la fine del tunnel sia vicina, ora che ha chiuso con le dipendenze e messo da parte l’orgoglio. Ha negli occhi l’ottimismo di chi racconta una storia a lieto la fine, la sua.

 

 C’è poi un trentenne milanese che ci ricorda quanto sia decisivo avere una famiglia alle spalle. “I miei genitori li ho persi. Ho dei parenti in un’altra città, ma per forza di cose non ci sentiamo. Io sono anche un po’ orgoglioso.” Orgoglio, una parola che torna spesso nelle nostre conversazioni notturne, perché chiedere aiuto a volte è la parte più difficile. A differenza degli altri, lui una casa ce l’ha. Per ora. Da quando ha perso il lavoro la scorsa estate non ha più potuto pagare affitto e bollette. Lo troviamo in fila con i senza dimora, i suoi nuovi amici, davanti alla cucina mobile di Progetto Arca: “In questo momento sono senza utenze; quindi, vengo qua e anche in altri posti per mangiare una cosa calda, la parmigiana o la lasagna o l’hamburger”. Approfitta della presenza di un’unità medica per farsi fasciare una ferita che ha bendato alla meglio. Finita l’intervista, sparisce rapidamente dietro i palazzi di Lambrate. È la settimana di Sanremo e segue con entusiasmo gIANMARIA che sul palco dell’Ariston canta: “Ma che ti sembro un mostro? Guarda che sono a posto”.

 

 “Agli occhi di una persona che vive normalmente con i suoi criteri, con i suoi obblighi, io sono una nullità. Lo vedi come ti guardano”: a dirlo è un ventiseienne che da quando ne ha 19 è in strada. “Sono stato adottato quando ero molto piccolo e poi se ne sono lavati le mani. A 15 anni mi hanno messo in mano a un sistema di assistenza sociale, tribunale, poi carcere, perché si fanno delle scelte sbagliate”, scandisce ogni tappa come se fosse stata ineluttabile. “Io mi sono sempre dato da fare. Adesso da quando c’è il Covid, ho fatto un po’ l’ubriacone. Me la vivo così”, ammette, guardando fisso con i suoi occhi di ghiaccio. “Sei arrabbiato?”, chiediamo. “No”, risponde. “Sei rassegnato?” – “Un po’”. Ci tiene a precisare che non è l’unico a sentirsi così e che basta farsi un giro di notte per accorgersene: “Io non ho trovato in anni un sistema o un inserimento a livello di società che potesse essere idoneo alla mia persona e come me ce ne sono tantissimi. Non è che sono io l’inaffidabile, che non viene calcolato: ce ne sono centinaia di migliaia di ragazzi giovani che non hanno un cazzo di niente”. Meglio di altri, riesce a descrivere il suo malessere profondo. È un millennial con una biografia da romanzo ottocentesco. “Non so se oggi sarò più una persona che vorrà ritornare ad avere una vita come tutti, perché non mi interessa. Adesso come adesso non mi interessa. Voglio restare libero con le mie verità. Ormai è troppo tardi, potevano pensarci prima”. “Parli della tua famiglia?”, domandiamo. “Della società”. Ci saluta precisando che, no, non ce l’ha col padre e la madre che l’hanno abbandonato, né con i genitori biologici che hanno fatto “una scelta diversa” – così la definisce – ma con tutti noi che non siamo riusciti a salvarlo.

 

LE ASSOCIAZIONI

Il mondo dell’associazionismo milanese è un caleidoscopio di casacche colorate che, coordinate dal Comune, si alternano per portare conforto in tutti i quartieri e in ogni sera della settimana. “Ci sono passato prima di essere un volontario. Ero sulla strada anche io quando ero piccolino; quindi, so cosa provano questi ragazzi quando sono in mezzo alla strada e come vengono guardati dalla gente”, è la confessione di un volontario che dopo qualche esitazione ha deciso di affidarci la sua storia. “Della mia vita passata sanno solo i miei amici più stretti. Sono cose che tengo per me perché è ancora molto difficile parlarne, mi rivedo in questi ragazzi. Ogni settimana vado a trovare un mio carissimo amico con cui ho condiviso quel periodo. Lui ha fatto la scelta di rimanere in strada, io sono riuscito ad alzarmi e ad andare avanti”, riconosce, con una punta di senso di colpa per avercela fatta. Difficile stabilire cosa significhi “scegliere” quando si parla di esistenze ai margini come queste. Al ritorno da una serata con la Onlus Ronda della Carità e della Solidarietà, Mauro Fucci, volontario d’esperienza, riflette proprio su questo: “La strada assorbe, ti prende, è senza regole. Può capitare di adagiarsi in una situazione che, anche se può sembrare paradossale, ti fa stare tranquillo e ti fa stare bene. So che è pesante quello che dico, ma per certi versi ti fa sentire libero”. Per un giovane pieno di energie e potenziale inespresso non è più facile spezzare il circolo: “Se con le persone anziane si cerca di attivare percorsi di protezione sociale, con loro l’approccio è quello del reinserimento socio-lavorativo”, spiega Luca Sechi, Presidente di M.I.A, Milano in Azione ODV. A volte però non è solo questione di stipendio: “Il ragazzo pensa che trovando il lavoro risolva problematiche che spesso sono più complesse: in alcuni casi perché lo sono effettivamente, anche solo da un punto vista burocratico; in altri casi, però, si finisce incastrati in dinamiche di auto-sabotaggio, in una sorta di loop. Il problema resta uno: pensare di farcela da soli”.

 

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