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Professoressa accoltellata, la violenza a scuola e l’arte di non porsi domande

Cronaca

Domenico Barrilà

Un ragazzo compie un gesto inconsulto, accoltellando la propria docente, rea di avergli inflitto alcune note, e ritorna la psico-sociologia dei ragazzi fuori controllo. Aumenta il bullismo, ci vuole lo psicologo a scuola, dice il ministro. Nessuna domanda sulla provenienza di tale comportamento, che non è la scuola

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Ci risiamo. Un ragazzo compie un gesto inconsulto, accoltellando la propria docente, rea di avergli inflitto alcune note, e ritorna la psico-sociologia dei ragazzi fuori controllo. Aumenta il bullismo, ci vuole lo psicologo a scuola, dice il ministro. Nessuna domanda sulla provenienza di tale comportamento, che non è la scuola.

Nelle scorse settimane, all’università di Chieti uno studente si era suicidato per la vergogna di avere mentito sul numero di esami effettivamente sostenuti. Anche in questo caso, un singolo caso, è partita un’indebita generalizzazione, con tanto di riflessione sui malesseri di un’intera generazione. La risposta è ancora lo psicologo all’università. La scuola non possiede la materia prima, è un importatore puro, nelle sue aule finiscono piante coltivate altrove, nella famiglia e nella società, che non sono astrazioni bensì luoghi precisi, esigenti, dove l’efficienza, la prestazione, il risultato sono divinità pagane indiscusse.

 

In questi luoghi, prima il bambino e poi il ragazzo ricevono stimoli spesso incompatibili con la salvaguardia della loro autostima, anzi fatti apposta per incrementarne i naturali sentimenti di inadeguatezza, rendendoli veri e propri complessi, gravami che minano in profondità e in modo permanente le sicurezze necessarie per affrontare l’esistenza. Le richieste che provengono, in modo implicito ed esplicito, da questi luoghi, alimentano un malessere cui è difficile sfuggire, una condizione insufflata a pressione nelle aule scolastiche, dove chi le abita è chiamato ad ammortizzare eccessi che talvolta esplodono suscitando un clamore che serve a riempire le pagine dei giornali, compreso quella che state leggendo, seguito regolarmente dall’oblio, in assenza totale di apprendimenti.

 

Nelle scorse settimane si è presentata nel mio studio una coppia di signori milanesi, un marito e una moglie dal taglio molto efficiente e sbrigativo, la loro figlia di 14 anni non è in grado di dare “nessuna soddisfazione”, malgrado gli sforzi compiuti per “spingerla”. Precisano subito che loro sono esattamente all’opposto, lei è una piccola imprenditrice che si è fatta da sé, lui un manager in carriera. Parlano della ragazza, figlia unica. Un “fallimento”, persino nello sport, dal quale “in tre anni non è arrivato neppure un modesto trofeo”. Rimango scosso da una frase tagliente della madre che, con un sorrisetto sarcastico, la definisce “una chiavica”.  Li invito a mettersi nei panni della figlia, cercando di immaginare come può sentirsi con quelle pretese puntate addosso e leggendo negli occhi dei genitori il perenne stato di delusione che traspare, di cui si sente la causa.

 

Ammetto di avere provato, da padre e da professionista, un profondo sentimento di solidarietà verso quella ragazza, che esprimo senza riserve ai genitori, la cui richiesta è trovare delle soluzioni per liberare il talento della figlia. Il dolore e il senso di nullità che pervade quella giovane vita non viene neppure sfiorato dai genitori, che sembrano parlare di una macchina disfunzionante, che vorrebbero portare in un’officina specializzata, consegnandola in mani esperte. Mi permetto di suggerire alcune chiacchierate a tre, lasciando da parte la figlia, che potrebbe vivere il ruolo di paziente designata come la conferma della propria inettitudine, mentre sarebbe necessario rendersi competenti, cercando di ricostruire nella figlia la tela della fiducia, sulla quale disegnare i passi successivi. Sono spariti. Immagino abbiano pensato che una risposta a pagamento non possa essere così tortuosa e indiretta.

 

Fuori dal recinto familiare, la società, l’una e l’altra avvinte in una continua danza circolare, dove si contaminano a vicenda, peggiorandosi. Proprio dalla società ci arriva oggi una sintesi perfetta di questo scellerato modo di pensarsi e di educare, la troviamo nelle parole pronunciate dall’amministratore delegato di una celebre azienda tecnologica statunitense, un uomo di sessant’anni, nato dall’altra parte del mondo, in Asia, e trasferitosi in America da bambino con la sua famiglia. Parlando ai laureandi di un ateneo dalla sua patria adottiva, si è soffermato sui clamorosi successi personali e aziendali, domandando ai ragazzi cosa avrebbero creato loro e aggiungendo: “Qualunque cosa sia, inseguitela come abbiamo fatto noi. Correte. Non camminate. Ricordate: correte sia quando sarete a caccia di cibo, sia quando sarete prede".

La Psicologia e gli psicologi ringraziano sentitamente. Continuo a ripetermi che se rallentassimo solo del 20 per cento rispetto ai ritmi attuali, perderei l’80 per cento dei miei pazienti. Sempre meglio che curare persone sane, vittime dell’esasperazione dei processi, oramai diventata modello di vita, la stessa che rende l’insuccesso una vergogna insopportabile e coloro che per dovere d’ufficio sono costretti a sancirlo, come l’insegnante accoltellata, nemici da abbattere.

 

Non siamo diventati dei mostri, solo delle creature lente per vocazione ma condannate a trasformarsi in macchine accelerate, violentando la propria natura.  Tanti anni fa, qualcuno aveva detto che l’uomo non corre perché ha paura, semmai ha paura perché corre. Aggiungerei che oggi la velocità è diventata un ottimo antidoto alle domande di senso, un antidolorifico esistenziale. Ogni tanto qualcuno esagera, come il ragazzo che voleva uccidere la propria insegnante, disturbando il copione, e qualcuno invoca più psicologia. Uno schema oramai consolidato. Cambiamo il tubo dell’acqua, ma quello continua a bucarsi e noi chiamiamo l’idraulico, senza chiederci perché si buca sempre nello stesso punto.

Poi torna il silenzio, anzi il rumore della velocità. Fino alla prossima intemperanza, quando io scriverò un articolo, tanti altri scriveranno un articolo, così, per riempire il vuoto o per inventarsi un colpevole, che spesso è la vera vittima.

 

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/