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Messina Denaro primo boss a riconoscere di fare parte di Cosa Nostra

Cronaca

Fulvio Viviano

L'ex superlatitante risponde al gip e si difende: "Non ordinai io l’omicidio del piccolo Di Matteo, il rapimento sì". Di fatto ammettendo di far parte della organizzazione criminale. Mai nessun capomafia lo aveva fatto prima

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Totò Riina, davanti ai magistrati e soprattutto davanti ai giudici del maxi processo, aveva sempre rinnegato di far parte di cosa nostra. Non conosceva la mafia e ha continuato, fino alla sua morte, a sostenere di essere stato soltanto un contadino. Matteo Messina Denaro invece, per la prima volta, ammette candidamente di aver ordinato il rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, ma di non averne commissionato l’omicidio.

Il ragazzino, colpevole soltanto di essere il figlio del pentito Santino Di Matteo, venne strangolato e sciolto nell’acido dopo una prigionia durata tre anni. A dare l’ordine, secondo la versione di Matteo Messina Denaro, fu Giovanni Brusca. Nessun altro. Si accusa di un reato, ma si auto scagiona da un altro.

 

L’ex primula rossa di cosa nostra ha parlato, pochi giorni dopo il suo arresto, con il Gip Alfredo Montalto. Ha tenuto a sottolineare questo aspetto, poi non avrebbe aggiunto altro.

Forse un modo per scrollarsi di dosso l’accusa di essere anche il mandante dell’omicidio di un ragazzino che di certo nulla c’entrava con le dinamiche di cosa nostra e con le dichiarazioni che il padre aveva fatto ai magistrati contro i corleonesi.

Di fatto ha ammesso di essere un mafioso, e di far parte di cosa nostra. Non lo ha detto esplicitamente, ma le sue parole sono state chiare.

 

Un cambio di rotta? Forse è presto per dirlo. Di certo non si tratta di un pentimento, almeno per ora. Il padrino, indicato da più pentiti e dalle sentenze passate in giudicato, è stato uno tra i  boss più sanguinari di cosa nostra. Il mandante delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. La mente dietro le bombe del ’93 di Roma, Firenze e Milano. Ma non è stato lui, sostiene, ad aver ordinato l’eliminazione del piccolo Di Matteo.

Una mossa strana quella del capomafia di Castelvetrano. Insolita rispetto alle frasi di rito alle quali siamo stati abituati da altri boss di rango che hanno sempre negato l’appartenenza a cosa nostra e non hanno mai ammesso le proprie colpe.

 

Un atteggiamento diverso, come diverso rispetto a quello degli altri boss, è stato il suo modo di gestire la latitanza. Di fatto alla luce del sole, almeno nell’ultimo periodo. Da uomo libero di girare per Campobello di Mazara, di frequentare tante donne e partecipare a feste e cene.

Non nascosto in un casolare di campagna da solo come Bernardo Provenzano.