Messina Denaro, così uguale e così diverso dagli altri boss. E se ora parlasse?

Cronaca
Fabio Vitale

Fabio Vitale

I magistrati e i gli uomini del Ros questa volta hanno forse qualche motivo in più per nutrire una speranza rispetto ad una collaborazione di giustizia che avrebbe una portata storica, paragonabile solo a quella di Tommaso Buscetta

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Perché un boss di 60 anni, metà dei quali trascorsi in latitanza, dovrebbe iniziare a fare quello che prima di lui non hanno fatto i suoi “maestri”: Riina e Provenzano o i suoi “compagni di scuola”: Giuseppe e Filippo Graviano? Perché un giovane di Castelvetrano, cresciuto dal padre Ciccio seguendo gli antichi riti di Cosa Nostra, poi maturato nell’accademia corleonese con la consegna del silenzio dovrebbe decidere di sedersi a parlare con uomini dello Stato non per trattare ma per raccontare, senza reticenze, quelle verità che per il resto d’Italia sono ancora mistero? I magistrati e i gli uomini del Ros, dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, questa volta hanno forse qualche motivo in più per nutrire una speranza rispetto ad una collaborazione di giustizia che avrebbe una portata storica, paragonabile solo a quella di Tommaso Buscetta che disvelò agli occhi del giudice Falcone e di un Paese incredulo il volto di un’organizzazione criminale la cui esistenza fino a pochi anni prima veniva negata, anche da chi aveva il compito di combatterla. 

La fede nella famiglia d'origine e in quella criminale

Se osserviamo il mafioso trapanese fino all’inizio della sua latitanza, all’indomani della cattura del capo dei capi Totò Riina, scorgiamo un giovane uomo prima killer fidato della Cupola poi rapidamente promosso ai vertici di Cosa nostra, ascoltato nelle fasi di ideazione delle stragi nella sua Sicilia e poi, un anno più tardi, mente di quelle a Roma, Firenze e Milano. Ha sempre eseguito e dato ordini, non tradendo se stesso e il credo che aveva sposato sin da bambino. Fedele alla famiglia d’origine e a quella acquisita, criminale, che nel suo caso coincidevano, essendo nato e cresciuto in un contesto in cui era lo Stato il nemico da sconfiggere. Da figlio devoto ogni anno, alla ricorrenza della morte del padre Francesco, sui giornali siciliani (senza troppi imbarazzi) faceva pubblicare il necrologio firmato: “i tuoi cari”. 

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La Sicilia e i siciliani

Uccideva e faceva uccidere senza esitare mafiosi, poliziotti, magistrati. Uccideva e faceva uccidere. Nessun rimorso, nemmeno di fronte a un bambino di appena 12 anni che aveva la sola “colpa” ai suoi occhi di essere figlio di un mafioso come lui, ma pentito. Il vocabolario e la Bibbia conferiscono a questo termine un significato alto, profondo: il riconoscimento dei propri errori e l’inizio di un percorso di correzione e conversione. In molte zone della Sicilia per troppo tempo, e quel tempo non è ancora finito, “pentito” è stato sinonimo di “traditore”, con la stessa accezione negativa di altre due definizioni presenti nel dizionario mafioso: “curnutu” e “sbirru” (poliziotto). Oggi qualcuno ancora si sorprende della poca voglia di parlare dei cittadini di quei piccoli comuni del trapanese che si ostinano a non voler rivelare i retroscena di quel vicino di casa così ingombrante. La Sicilia e siciliani non cambiano, si dirà anche questa volta. Un silenzio complice no? Sì, di certo però non meno rumoroso di quello che ha consentito negli ultimi quarant’anni ai padrini di colonizzare interi settori del Nord industrializzato del nostro paese, confondendosi con gli affari dei colletti bianchi e dietro all’omertà di chi aveva forse solo il coraggio di ironizzare a bassa voce su quel buffo accento meridionale. 

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La "scomunica" di Riina

Ma torniamo al dandy trapanese. Vestiti firmati, profumi, belle donne. Non è ovviamente solo questo il Messina Denaro che stiamo imparando a conoscere negli ultimi giorni, simile a quello che aveva alimentato il mito della sua rampante giovinezza. È soprattutto un criminale che ha dovuto affrontare tante crisi, da quella economica che ha colpito anche la mafia siciliana a quella del consenso. Un duro colpo lo ha assestato dal carcere di Opera il suo mentore, Riina, meno di dieci anni fa nel corso di una conversazione con un altro detenuto durante l’ora d’aria riferendosi proprio al suo erede. “Questo fa il latitante, si sente di comandare, ma non ha fatto niente. Ha pensato solo ai fatti suoi”. Parole che sanno di scomunica. U Siccu (Messina Denaro) e u Curtu  (Riina) sono diversi, lo sapevamo, e non solo per la corporatura o la loro storia criminale. Il padrino corleonese è rimasto “viddanu”, legato a quelle campagne  divenute poi anche nascondiglio del socio Provenzano. La primula rossa di Castelvetrano ha, invece, sempre ceduto alla vanità. Estroverso, eccentrico, così come confermano le foto recenti (vedi i selfie in clinica), le immagini dell’arresto di un uomo avvolto nel suo montone griffato o gli indumenti trovati nella casa che ha abitato nell’ultimo anno.

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E se ora decidesse di parlare?

Si è sempre nascosto, mostrandosi. Una latitanza nemmeno troppo riservata (bisognerà far luce su quella “libertà” durata trent’anni) trascorsa scrivendo alle donne amate o a confidenti inattesi come Tonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano con un passato da narcotrafficante prima di essere reclutato dai servizi segreti, a cui offriva le sue riflessioni sul mondo e sulla sua condizione di uomo in fuga. Le lettere indirizzate a Svetonio (il nome in codice scelto da Vaccarino) erano firmate da Alessio (dietro al quale si nascondeva il boss). Ricordava il signor Malaussène di Pennac e le opere di Jorge Amado, citava Virgilio e l’Eneide, criticava i giudici e il vecchio padrino Bernardo Provenzano che si era fatto sorprendere in un covo pieno di pizzini compromettenti. Da quel singolare rapporto epistolare, bruscamente interrotto dalla scoperta delle reali intenzioni del destinatario, si evince come Alessio si fidasse di Svetonio.

Chissà se questo mafioso così strano e così diverso dagli altri deciderà di sorprenderci, una volta dietro le sbarre o davanti ai magistrati, lasciando prevalere l’uomo sul mafioso, la fiducia sul sospetto, la parola sul silenzio.

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