Vite, Sorrentino: “Potrei raccontare Napoli”. L’intervista a Sky Tg24. VIDEO

Cronaca

Giuseppe De Bellis

In occasione dei suoi 50 anni, il canale all news rende omaggio al Premio Oscar con una lunga intervista disponibile on demand e sul sito. Il colloquio, registrato prima dell’emergenza Covid-19, fa parte del ciclo “Vite – L’arte del possibile”, curato e realizzato dal direttore della testata Giuseppe De Bellis

Buonasera Paolo, vorrei partire da una citazione non cinematografica, ma letteraria sua, però: “Hanno tutti ragione ed è in base a questo principio elementare che prospera il benessere e il conto corrente”.  È proprio così o è soltanto letteratura?
"Rispecchia abbastanza il mio modo di pensare, che il torto e la ragione sono equamente suddivisi. Mi irrita sempre abbastanza quando si fanno delle generalizzazioni, bianco e nero, quando vengono etichettati cattivi e buoni. Ognuno ha la sua quota di ragione, ognuno ha la sua quota di torto. Siamo tutti un complesso mix di problemi, di risorse, di vizi e virtù, di difetti e di cose positive".

 

Hanno tutti ragione, significa anche che tutti hanno un’opinione, lei più volte ha detto che questa è un’era in cui tutti hanno un’opinione e tutti hanno un giudizio. Come si fa a sopravvivere in un’era così?

"La cosa più utile da fare, ma non la migliore è appartarsi. Dell’era dei social quello che mi sorprende è la velocità con cui uno si forma un’opinione, senza studiare e informarsi, diventando lapidari, schematici e molto spesso sciocchi. È questo che è preoccupante".

 

… Su una terrazza simile a questa, con una vista analoga, Jack Gambardella ne La Grande Bellezza decide di scardinare le certezze di Stefania. Quando scrive un monologo così, ha un’idea precisa di chi è l’obiettivo della sua scrittura o è soltanto un istinto?

"L’obiettivo non è una persona, come in molti vorrebbero, per quella scena lì. Moltissime persone hanno cercato di estorcermi un nome di una persona, che non è una sola, ma una mescolanza di incontri, di persone, di eventi. L’obioettivo è smontare le certezze in quanto tali".

 

A lei piace il dubbio?

"Sì, mi piace il dubbio e mi piacciono le persone che hanno dubbi, incertezze, che non molto sicure".

 

Nel processo di realizzazione di una pellicola, dall’ideazione alla produzione del film, quanto è rilevante il dubbio?

"Per me un film è una somma di domande. Quando c’è una risposta spesso è talmente minima che nessuno se ne accorge. Il film è il prodotto dei miei dubbi, delle mie curiosità, delle mie passioni, è una mescolanza della mia biografia e di quelle altrui o inventate".

 

Quanto sono importanti i luoghi nella sua vita e nella sua produzione cinematografica?

"I luoghi nella mia vita sono molto importanti. Mi affeziono molto ai luoghi. Provo costantemente nostalgia, malinconia, voglia di tornare. Sono molto romantico rispetto ai posti".

 

Roma che posto occupa?

"Enorme. Ci vivo da 12 anni e ci venivo anche prima, spessissimo per lavoro, quando avevo 18-19 anni. È la mia città di adozione. Nonostante io la giri per lavoro, ci sono ancora cose che non conosco e questo dà adito alla mia curiosità, perché non mi stancherà mai".

 

Invece il rapporto con Napoli com’è? Di nostalgia, di interesse o di lontananza?

"All’inizio di disinteresse, ora ho una gran voglia di tornarci. Alla fine credo si faccia un gran cerchio nella vita: si parte da un punto, si va in un altro, per poi tornare sempre all’origine. Non ci si libera per nessun motivo al mondo dall’origine, dalle proprie radici".

 

Com’era Paolo Sorrentino ragazzo, a Napoli?

"Abbastanza sfigato. Io vengo da una piccola famiglia della borghesia napoletana. Mio padre lavorava in banca. Senza infamia e senza lode. Una medietà totale, ero anche abbastanza emarginato. Questo mi ha permesso, però, di sviluppare un buon spirito d’osservazione che poi si è rivelato proficuo per quello che ho fatto in seguito".

 

Ha mai nostalgia di quel tempo, o no?

"Per una serie di motivi la gioventù l’ho attraversata solo anagraficamente, ma non l’ho vissuta pienamente. Quindi mi è difficile avere nostalgia di un qualcosa che non conosco. La immagino. La immagino vedendo la vita dei miei amici, più spensierati. Ho nostalgia di quell’età in generale. Dove il futuro ha un significato importante e il tempo sembra essere dilatato.  Ho nostalgia della speranza che si ha quando si è giovani".

 

Qual è stato il momento in cui ha pensato: “Voglio lavorare nel cinema”?

"Dopo aver visto Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore ho pensato: “Ah, che bello deve essere stare dietro le quinte e mettere in scena tutto questo spettacolo. Da quel giorno mi sono adoperato lentamente per farlo".

 

Le faccio fare un salto lungo. Passiamo da qui alla notte degli Oscar, lei quella notte ringrazia quattro persone (una è un gruppo): Maradona, i Talking Heads, Fellini e Scorsese. Se facesse quella notte oggi, citerebbe qualcun altro?

"No, citerei gli stessi quattro. Non è cambiato niente".

 

Esiste un Paolo Sorrentino pre-Oscar e uno post-Oscar?

"No, ritengo di essere rimasto simile. L’Oscar è stato una bellissima parentesi, ma è stata una bolla. Conosco anche i retroscena, perché i registi italiani che lo hanno vinto prima di me - Salvatores, Benigni che conosco molto bene - me li hanno raccontati. È una parentesi meravigliosa che ti garantisce un certo credito per il futuro, che devi mantenere. Però è una parentesi, ecco".

 

Quindi è una cosa che viene percepita più dagli altri che da sé stessi.

"Sì, ma perché tutto il periodo passato alla conquista di questo Oscar è stato abbastanza frenetico, non me ne sono neanche ben reso conto. Mi portavano in giro per la città a fare aperitivi, cocktail, ma tutto in maniera frenetica. Mi sono reso conto che era divertente, ecco, ma faticoso. Una fatica sempre nei limiti, molto accettabile, magari fosse quella la fatica nella vita delle persone".

 

Per quanto riguarda quello che ha raccontato sull’Italia: il calcio, Andreotti, Berlusconi, Roma e il Vaticano. C’è, del nostro Paese, qualche altra cosa che vorrebbe raccontare?

"Napoli. Penso che potrebbe essere il prossimo obiettivo".

 

E invece, un personaggio? Realmente esistito, un personaggio storico o un tipo umano…

"Leopardi, ma l’ha raccontato magnificamente Mario Martone".

 

Le piace stare da solo?

"A piccole dosi, poi a un certo punto mi pesa. Da ragazzo mi piaceva molto. Ora però la uso come scusa per starmene per conto mio".

 

Nel suo cinema, però, la solitudine esiste. Anche, spesso, un personaggio pubblico fa delle riflessioni sulla sua solitudine. Questo c’è e in maniera molto chiara. Le interessa la solitudine nella moltitudine per i suoi personaggi?

"Mi interessa la malinconia derivante dalla solitudine, per come la ricordo io quando ero ragazzo. L’ho messa ovunque e coincide con un lungo monologo interiore, altra cosa che mi piace esplorare".

 

Le piacciono di più i mascalzoni o i perdenti?

"Spesso coincidono, ogni tanto quando la giustizia si palesa coincidono. Mi piacciono tutti e due. Mi piacciono anche i Santi, anche i virtuosi. Tutto quello che non sono".

 

Quante delle idee che le sono venute nel corso della vita lavorativa possono, poi. Essere maturate per trasformarsi in qualcos’altro? Un pezzo di un film, una storia, un libro…

"Tutte, non ho buttato via quasi niente. Io uso tutto, anche perché ho un numero di idee piuttosto limitato, quindi uso anche idee di quando avevo 14 anni. Una delle mie attività predilette è andare in giro per casa a cercare vecchi appunti, quaderni. C’è sempre la possibilità che possa rispuntare fuori qualcosa".

 

Ha parlato più volte dell’importanza della scrittura, scrivere libri le ha dato la possibilità di usare più digressioni rispetto al cinema. Vorrebbe scrivere più libri o è un capitolo chiuso?

"Mi piacerebbe, ma non ho il tempo per farlo. Mi riservo di farlo, in futuro, sperando che ancora rimanga qualcuno che legge".

 

Si riesce a trovare una sintesi tra l’esigenza produttiva e quella narrativa o il regista deve imporre questa digressione?

"Bisogna imporla.  Sia il produttore che il pubblico sono abbastanza reticenti al fatto che durante la narrazione ci sia qualche digressione. Io non l’ho mai capita bene questa cosa, perché nella vita la digressione è continua. Forse siamo troppo abituati a vedere le cose in modo lineare. Anche molti critici, anche intelligenti, non vedono questa cosa di buon’occhio, la vedono come una trovata, come un giochino del regista. Invece a me sembra così profondamente realistica, e per questo la faccio".

 

C’è qualcosa che non le piace del cinema? Sia da spettatore che del mondo del cinema.

"Come spettatore non mi piace tutto un certo filone di film che si flagella, che sono punitivi, che ritiene che l’arte passi attraverso la semplificazione, cosa che per me è una forma di rachitismo. E, purtroppo, sono cascato male perché è da tempo che questi film regnano sovrani. I miei film diventano anacronistici in questo senso. Nella noia del nostro quotidiano, non vedo perché dovrei andare al cinema a vedere il quotidiano della vita di un altro, uguale al mio o peggio".

 

L’idea che un film debba essere catalogato?

"Anche questa è una cosa fastidiosa. È un meccanismo di semplificazione che spesso la critica adotta. O giudicare i film in base ad altri film".

 

La divisione un po’ moralista del cinema impegnato, come migliore, del cinema disimpegnato?

"Lì sfonda una porta aperta. C’è sempre una sottile forma di ricatto nel cinema impegnato. Esiste, esiste il cinema di denuncia, che propugna delle idee molto chiare. E dato che tratta argomenti importanti, si fa fatica a dirlo “brutto”. È come uno di quei giochetti che si facevano prima, quando si induceva lo spettatore a piangere con dei trucchetti narrativi, che una volta conosciuti si possono riproporre all’infinito".

 

Nei suoi film c’è sempre una linea sottile di autoironia. Questa è una caratteristica che fa parte anche della sua vita oppure no?

"Spero di sì, perché è una delle poche cose che mi fanno funzionare durante la giornta. Questa è una cosa che mi deriva molto da Napoli. Napoli è una città dove molte persone sanno essere divertenti, quindi mi viene da lì".

 

Si può essere ironici senza essere scanzonati con sé stessi oppure è un rapporto assolutamente indissolubile?

"A me piace che sia indissolubile. L’ironia deve presupporre una certa dose di autoironia, di cattiveria, di spregiudicatezza. Per arrivarci bisogna mettere assieme una serie di elementi, non è una cosa istintiva".

 

La cattiveria la affascina o la teme?

"La cattiveria gratuita la temo, non mi solletica niente".

 

Tornando ai personaggi che ha raccontato nei suoi film, c’è un tratto comune (Berlusconi, Andreotti, Gambardella, The Young Pope, The New Pope): il potere è centrale nei suoi film. Il suo rapporto col potere com’è?

"Il potere non lo conosco. Il mio mestiere è sprovvisto di potere, è qualcosa di accessorio, di decorativo. Non faccio parte del potere. Siccome è qualcosa di misterioso per me desta una grande curiosità. Come il Vaticano, uno Stato in una città, recintato da mura, inaccessibile a tutti, come tutte le cose inaccessibili crea curiosità. La mia fascinazione per il potere è data dal fatto che non lo conosco. Mi illudo di conoscerlo. Ma ormai ho smesso di fare film sul potere, ne ho fatti fin troppi".

 

Silvio Orlando ha detto che il cinema italiano per troppi anni si è vergognato della bellezza, poi però la bellezza è diventata centrale. Lei che rapporto ha con la bellezza?

"Ci sono molti registi della mia generazione e non solo, che hanno delle competenze tecniche anche maggiori delle mie e questo è un gran requisito per iniziare a frequentare la bellezza. La bellezza va costruita, non la si trova necessariamente dietro l’angolo. Penso che sia un bel motivo per stare al mondo, quello di stare dietro le quinte a cercare e guardare la bellezza. Per bellezza io poi intendo una serie di aspetti del comportamento umano che non sono così immediati, così visibili e che se lo diventano, ai miei occhi, diventano belli".

 

Le altre cose che le piacciono, questo l’ho letto, le cose per cui vale la pena vivere sono il calcio e la famiglia. Della famiglia non le chiedo perché è una cosa troppo personale, invece perché il calcio è così importante, la affascina così?

"La partita di calcio ha molto in comune con il film: c’è una narrazione, ci sono delle tecniche, delle tattiche, dei trucchi, degli escamotage e c’è un finale che non è scontato, che nessuno conosce. Il calcio è una bellissima variazione del cinema, secondo me".

 

Nel film “L’uomo in più” che racconta il calcio, invece, c’è un monologo sulla libertà dell’essere umano, dell’uomo libero. Chi è oggi un uomo libero?

"Questa è una bellissima domanda, a cui dovrebbe rispondere qualcuno di più intelligente di me. Non è facile, perché non è neanche sufficiente fregarsene delle convenzioni oggi perché altrimenti si viene etichettati come provocatori. L’uomo libero quindi forse è uno che se ne frega delle convenzioni, ma che nel frattempo non si vede in giro".

 

Di sentimenti o dei difetti della società c’è qualcosa che la infastidisce più di altro? Effetti collettivi, maleducazione, violenza, cattiveria, pregiudizio.

"Il pregiudizio, l’invidia. Più di tutti, l’ignoranza. L’ostentazione dell’ignoranza è molto fastidiosa. Preferisco quel tempo in cui chi era ignorante si doveva vergognare o che ti faceva star zitto di fronte a chi ignorante non lo era".

 

Se non avesse fatto il regista, che cosa avrebbe fatto?

"Mi sarebbe molto piaciuto fare il musicista, ma non ho mai avuto la pazienza per imparare a suonare uno strumento. Da ragazzo ero molto discontinuo, mi sarebbe piaciuto fare il professore universitario, forse, come cosa più vagamente plausibile".

 

Il rapporto con l’ambizione è cambiato nel corso degli anni?

"Molto. Intorno ai 33-34 anni ero molto più ambizioso. Adesso, prossimo ai 50 anni, mi sono molto pacificato e devo dire che la vita è molto più affascinante e divertente senza l’ambizione, perché poi l’ambizione è un’ossessione quotidiana, ti accompagna quotidianamente, minuto per minuto. Quindi, me ne sono un po’ liberato. La massima ambizione che ho è riuscire a fare semplicemente delle cose che mi piacciono".

 

La definiscono “genio”, “maestro”, e questo fa fuoriuscire comunque del talento. Questa cosa le provoca imbarazzo?

"No, io non ci credo. Così come quando mi hanno detto che sono il peggior regista che sia mai esistito nella storia del cinema. Me ne vanto tantissimo perché è una definizione importante. Tim Burton ci ha fatto un film capolavoro sul peggior regista della storia del cinema, magari Tim Burton si interessasse a me per fare un film sul peggior regista del cinema e facesse Ed Wood su di me. Quindi non prendo sul serio… sono iperboli, sia in positivo che in negativo. Le iperboli sono un meraviglioso materiale narrativo, ma hanno un valore abbastanza limitato nella vita vera".

 

Ha detto che non farà più film sul potere. Cos’è che le interessa oggi, della nostra contemporaneità, la cosa che le stimola più interesse?

"Quasi nulla. Se penso ai film da fare, ho sempre fatto film che non mi riguardano direttamente e mi piacerebbe iniziare a far film che mi riguardano da vicino, che riguardano me, cose mie. Non sono molto attratto dalla contemporaneità. Ogniqualvolta mi si presenta un film ambientato nel passato, mi interessa molto di più rispetto a un film sull’oggi".

 

Invece, l’esperienza all’estero. Dopo Los Angeles, vivrà per un periodo a New York, come le fa vivere il rapporto con l’Italia?

"Ho sempre paura di queste risposte, perché ho sempre detestato quelli che appena mettono piede all’estero iniziano a parlar male dell’Italia. Ho paura che come rispondo, sbaglio".

 

Le piace, comunque, vivere fuori…

"Sì, mi piace. Trovo che sia divertente, affascinante, nella misura in cui deve essere a tempo determinato. La mia vita è qua e sempre sarà qua. O a Roma o a Napoli". 

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