Un ciclo di interviste del direttore Giuseppe De Bellis a dieci grandi italiani che hanno saputo raggiungere il successo a livello internazionale. Il primo degli appuntamenti è dedicato all'amministratore delegato di Pirelli, azienda che guida dal 1992
“Mi piace tutto ciò che è tecnologia, mi piacciono le idee, mi piace il futuro. Se questo vuol dire essere un innovatore, lo sono". Marco Tronchetti Provera è seduto nell’auditorium della sede milanese di Pirelli (la fotostoria). Passa accanto a questo posto ogni giorno dal 1986, anno in cui entrò per la prima volta in azienda. Sei anni dopo ne era amministratore delegato e azionista. Due decenni e mezzo dopo è ancora e sempre casa sua: ufficio con vista su Milano, sala consiglio esattamente sulle nostre teste e ora tutto intorno a lui 350 poltrone di velluto bordeaux che si affacciano su un enorme ledwall. Lì passano immagini e non solo: abbiamo appena ascoltato il rumore di pistoni, pompe, nastri, terminali. È il suono della produttività, è la sinfonia del progresso. Azienda, fabbrica, laboratorio. E’ l’idea che diventa prodotto. Innovazione, appunto. Tronchetti Provera ne parla da prima che fosse un tema collettivo. E ne parla ora che è diventata la parola chiave per capire il presente.
Secondo lei, esiste un punto di riferimento globale che indichi un po’ la via?
No, non credo esista un esempio. È pieno di innovatori, di persone che hanno idee fantastiche, che hanno capacità di realizzare progetti, che si dedicano con passione. Io ho grande ammirazione in tutte le aree, non solo nel lavoro di chi ha capacità di innovare, di avere pensiero laterale, di vedere il mondo con occhi diversi.
Oggi i grandi temi del futuro, penso per esempio all’automazione, la entusiasmano o la spaventano?
È entusiasmante la potenza che le nuove tecnologie danno a chi ha voglia di usarle in modo positivo. Quello che mi spaventa è la mancanza di preparazione per gestire lo sviluppo tecnologico. Non siamo riusciti a oggi a creare una scuola, una formazione che permetta di dominare le tecnologie, di dominarle e di distribuirle in modo tale che la gente ne colga gli aspetti positivi. Oggi viviamo una fase pericolosa.
Lei ha fiducia nei giovani?
Ho fiducia nei giovani che hanno voglia di impegnarsi. Sono contro gli slogan che portano i giovani a non sentirsi impegnati, che danno ai giovani dei diritti e non dei doveri. Secondo me i giovani hanno il dovere di informarsi e di muovere le loro energie in senso positivo. Quindi essere parte attiva della società e la società deve creare uno spazio perché i giovani devono crescere.
Se Pirelli nascesse oggi nascerebbe in Italia, in Cina o in Silicon Valley?
Mah, la Pirelli di oggi sarebbe potuta nascere solo in Italia. Le aziende più futuriste oggi nascono più a Silicon Valley e una parte nasce in Israele e anche la Cina sta iniziando a essere competitiva.
Se invece lei fosse nato in Silicon Valley sarebbe stato diverso?
Il mondo americano ha un tipo di formazione diversa. Io sono quello che sono perché sono figlio del mio Paese, della mia educazione, di quello che mi ha dato la mia famiglia. Il mondo della West Coast americana è diverso.
Qual è l’aspetto che le piace di più della sua azienda?
Il prodotto. Perché mi piacciono le automobili. E la globalità dell’azienda, che comunque è legata alla geopolitica. E un’azienda che vede il mondo in tutti i suoi aspetti ci permette di fare esperienze uniche. Questo è.
Ma quando vede queste super macchine, le viene la passione per il rombo del motore oppure…
Quello ce l’ho sempre avuto. Uno dei ricordi più belli che ho arriva dal sud della Francia, in macchina, o ancora in giro - sempre in macchina - in Spagna in posti meravigliosi.
Che cosa ricorda dell’inizio del suo percorso professionale? Il primo ricordo che ha del suo primo lavoro.
Il primo ricordo del primo lavoro era un’ora di macchina la mattina per arrivare in ufficio, ascoltando dei programmi radio fantastici.
Si ricorda quali erano?
Bandiera gialla. C’erano degli spettacoli… eh sì erano spettacoli, sembrava di viverli. E poi ricordo un vecchio ingegnere, molto appassionato al dettaglio, che mi spiegava cose di cui non capivo assolutamente niente.
Quand’è che lei ha pensato: “Voglio fare l’imprenditore, voglio fare il manager, voglio guidare un’impresa”?
È stato sempre parte della mia educazione. Mio padre aveva spirito imprenditoriale e l’unico mondo che potevo immaginare era quello di fare l’imprenditore, mi veniva naturale come obiettivo.
Non ha mai pensato di poter fare qualcos’altro? Non ha mai avuto qualche altra aspirazione?
Così, a livello puramente teorico, mi affascinava il ruolo dei direttori d’orchestra, ma questo era più un mondo ideale.
Mai pensato: “Provo con la musica”?
Mai pensato: ero stonato in una maniera terribile.
Secondo lei, se oggi nascesse Marco Tronchetti Provera, farebbe sempre l’imprenditore?
Assolutamente sì.
Oggi si può crescere ancora con l’idea di fare impresa, anche nel nostro Paese?
Anche nel nostro Paese. Io sono convinto che questo sia un Paese complesso. Avere successo in Italia è una garanzia per fare cose fuori dall’Italia, perché è un percorso a ostacoli. Però si trova ancora gente che ha voglia di fare. Si trova una grande capacità di salire a bordo quando c’è un buon progetto. Gli italiani sono molto critici, però quando credono in qualcosa sono i più bravi al mondo.
La politica le piace?
No.
Non le interessa?
Molto, mi interessa molto perché è la parte decisiva del futuro del nostro Paese e in generale la geopolitica poi determina il futuro delle nuove generazioni, quindi è l’ossatura di quello che è il futuro del mondo.
C’è stato un momento in cui magari ha pensato che la politica potesse essere un aspetto anche della sua vita o no?
Certamente sì. La mia generazione ha vissuto le grandi ideologie, la vera passione politica. Ho iniziato a far politica a 14-15 anni, a scuola. Sono stato un giovane liberale, sono stato presidente dei Giovani Liberali a Milano. Questo quando avevo 18 anni. A 23 anni, già la politica di allora non mi convinceva.
Nella sua famiglia, o anche al di fuori della sua famiglia, c’è stata una figura di riferimento per lei?
In assoluto, nel mondo del lavoro, mio padre è stato il punto di riferimento. Poi, ovviamente, essendo vissuto vicino a Leopoldo Pirelli, ho colto degli aspetti della figura dell’imprenditore che hanno arricchito quella che poteva essere la mia esperienza. Dal punto di vista dei valori, il mio punto di riferimento è stata mia madre, che era una donna particolarmente solida.
E lei, invece, che padre è?
Io sono un padre che considera i figli la priorità, poi sta a loro giudicare come sono come padre, ma sono sempre stati la priorità della mia vita e lo saranno sempre.
Se ritorna con la mente alla sua infanzia si ricorda un bambino felice, un ragazzo felice, un giovane uomo felice o ci sono stati anche momenti difficili?
No, sono stato fortunatissimo. I momenti difficili li hanno tutti, io però ho avuto l’enorme fortuna di avere dei genitori straordinari. Odiavo andare a scuola da piccolo, alle elementari inventavo di tutto pur di non andare a scuola la mattina. Poi la scuola è diventata parte della vita, ho avuto degli amici straordinari, degli insegnanti straordinari. Nell’insieme sono stato molto fortunato.
Ci sono alcune passioni note: sicuramente il calcio e la vela. Allora le chiedo, se un giorno dovesse capitare di dover scegliere tra una partita dell’Inter e una gita in barca a vela, che cosa sceglie?
Dipende dall’importanza della partita.
Quindi se la partita è importante, rinuncia alla barca a vela?
Assolutamente sì.
L’Inter per lei è soltanto cuore o è anche business?
È stata anche business ed è business. Diciamo che la parte cuore ha aiutato il business. Si sono unite delle cose: c’è amicizia, c’è cuore, c’è business. L’Inter è anche di più, nel periodo che ho vissuto con Massimo Moratti, sono anche dei valori, non è soltanto business e cuore. Penso che l’Inter di Moratti sia stata molto congeniale a quello che è la Pirelli e a come sono io.
Una follia di Marco Tronchetti Provera per una sua passione.
Ho un ricordo di una partita di Champions League. Per riuscire a vederla credo di non aver dormito un giorno e mezzo perché ero dall’altra parte del mondo e volevo assolutamente esserci. Era una partita con il Barcellona.
Vittoria o sconfitta?
Se Dio vuole, vittoria.
Senta, e invece la vela che cos’è? É una fuga o è semplicemente il contatto con la natura?
È la meraviglia del contatto con la natura, uno stacco della mente dalle cose di tutti i giorni. È un rapporto immediato, qualcosa di straordinario. Per me è lo stare nella natura, in più con la vela puoi starci di fatto.
C’è qualcosa nella vita che avrebbe voluto fare e che non è riuscito a fare?
Nel lavoro sì, ho tentato di fare un progetto che non sono riuscito a fare. Un progetto che mi affascinava, di integrazione fra telecomunicazioni e contenuti, l’allargamento della dimensione della società di telecomunicazioni, seguire il modello di sviluppo americano che stava stravolgendo il mondo. Questo è un progetto che non sono riuscito a fare.
Ma quella stagione di Telecom, per lei, è stata soltanto una parentesi professionale oppure la chiusura di quella stagione l’ha anche provata umanamente?
Beh, umanamente è stata assolutamente una prova molto impegnativa. Dal punto di vista professionale è stato entusiasmante per alcuni ambiti e poi… è meglio girare pagina.
E invece c’è un progetto che vuole ancora realizzare?
Certamente sì, ho ancora delle idee che non posso dire. Ho delle idee che spero di riuscire a realizzare. Purtroppo sono ancora in una condizione infantile: ogni mattina ho un sogno
E il sogno di questa mattina qual è?
Il sogno di questa mattina fa parte delle cose che non posso dire.
Milano quanto è importante per lei?
Molto importante. Milano è la radice, Milano è dove sono di casa.
Esiste un altro luogo che, come Milano, fa parte della sua vita indissolubilmente rispetto alla sua identità?
Mah, come Milano no. Ho vissuto bene a Londra, però non c’è paragone. Milano è di gran lunga il posto in cui io ho vissuto bene e voglio poter vivere fino all’ultimo giorno.
Secondo lei, oggi, esiste un “modello Milano” o è soltanto una costruzione mediatica?
Milano ha una storia, non è un fatto mediatico. C’è una storia vera che sembra un aneddoto: nel 1118 Ariberto Intignano, arcivescovo di Milano, emanò un editto in cui disse: “Se avete voglia di lavorare, venite a Milano. Milano vi renderà uomini liberi”. Era il 1118. Io penso che in questa frase - che è un po’ più rotonda, io l’ho semplificata - ci sia quello che è lo spirito di Milano, quello che mi hanno trasmesso i miei genitori, quello che si vede in giro. Quello che avviene a Milano è normale, e questo visto da fuori può sembrare strano. Poi a volte noi milanesi sbagliamo e questo può renderci talvolta antipatici.
Si ricorda un giorno brutto della sua vita?
Un momento brutto è stato quando mio padre, che era azionista della società di cui io ero diventato amministratore delegato a poco meno di 30 anni, mi disse che aveva deciso che gli azionisti della società saremmo stati io e i miei fratelli. E siccome lui aveva il 75%, io avrei avuto il 25% e i miei fratelli, che erano più grandi di me, avrebbero avuto la maggioranza. Quella cosa in quel momento mi aveva creato dei seri dubbi sul mio futuro.
Però poi è stata una molla o no?
È stata una molla enorme. Una molla enorme perché, ovviamente, io ero il piccolo che aveva fatto il passo più lungo della gamba e i miei fratelli, da fratelli maggiori, avevano cercato di intervenire, ma poi io credo di essere riuscito a dimostrare che il passo era giusto.
Quanto le piace l’arte?
L’arte mi affascina. Mi fa capire ogni volta quanto sono ignorante. Non ho competenza artistica. Sono affascinato, anche lì, dal genio, dalla capacità di innovare, di una mano, di un suono. Questo mi affascina.
E, tornando al Tronchetti Provera giovane, ha mai desiderato di essere un artista?
No, non ho mai desiderato essere un artista perché non ho mai riconosciuto in me nessuna capacità artistica. Quindi sarebbe stato uno spreco di energie.
Quindi si preferisce in gessato e doppio petto.
Sì, in gessato o meglio ancora con una giacca a vento, mentre sono in barca a vela o vado a sciare.
Il pneumatico, le piace proprio come oggetto?
Quando uno vede un pneumatico P0 diventa un pollice e come viene prodotto, mi piace. I nostri ricercatori sono degli artigiani. Quelli bravi bravi hanno delle sensibilità che li rendono degli artigiani.
Ho avuto la possibilità di vedere il centro per lo sviluppo: veramente affascinante.
Ma è gente appassionata, gente che lo fa perché gli piace. Io ho voluto fare la Fondazione proprio per rimanesse traccia di tutto questo. Per fortuna la creatività va avanti.
Abbiamo parlato dell’arte, del suo rapporto con l’arte e del rapporto che Pirelli ha con l’arte. Siamo in questo momento nella Fondazione che rappresenta un po’ l’unione dell’industria Pirelli con tutto il mondo Pirelli. Vediamo qui tutto ciò che Pirelli ha fatto nel corso degli anni. Oggi, se dovesse definirla, come definirebbe questa azienda?
È un’azienda tecnologica con una grande tradizione, con un brand molto forte, con una radice italiana e un’importanza globale.
L’importanza della tecnologia oggi, nel mondo Pirelli, quanto è forte?
È prioritaria. La tecnologia è il cuore dell’azienda. Senza una forza tecnologica non c’è futuro, quindi è la priorità.
Quindi oggi, più che industria, la identifica più come una tech-company o resta comunque un’industria tradizionale?
È un’industria tradizionale che utilizza tutte le tecnologie che oggi sono disponibili per essere leader nel suo mondo.
Dello sviluppo e della ricerca che fa Pirelli, penso ad esempio al mondo del MotoSport, quanto arriva al consumatore?
Molto, perché le discipline del MotoSport, la Formula 1 in particolare, sono un laboratorio a cielo aperto. Hanno dei modi di operare, dei gruppi di tecnologie in condizioni estreme, formazioni di persone che sono nella ricerca e che vanno dove la velocità e la capacità di reazione sono fondamentali. Quindi c’è una componente di formazione delle persone, di sviluppo delle tecnologie e poi c’è la terza componente che è la parte marketing che è fondamentale.
Quindi tutti gli investimenti, immagino molto importanti nel mondo della Formula 1 e nel resto del MotoSport ripagano nel tempo o no?
Certamente sì. Sono il cuore della Pirelli di oggi e il futuro. Senza MotoSport e senza Formula 1, l’azienda non si potrebbe porre delle sfide estreme. Dalle sfide estreme poi nascono le applicazioni più tradizionali, si trovano vie nuove, materiali nuovi, culture nuove. Quindi è un acceleratore di sviluppo della tecnologia.
Ha parlato di Pirelli definendola globale. Oggi sappiamo che l’azionista di maggioranza è cinese, ma lei ha sempre detto: “Questa è e resterà un’impresa italiana”.
Ma sì, abbiamo preso degli accordi con i cinesi, prima avevamo degli accordi con i russi. La premessa è sempre stata quella di porre dei patti molto chiari: le aziende hanno una carta costituente, che è lo Statuto. Lo Statuto è stato il primo oggetto di discussione. Ebbene, lo Statuto porta al suo interno delle clausole che rendono Pirelli la più italiana delle aziende italiane. Per spostare la sede di Pirelli all’estero deve votare a favore il 90% delle azioni, per spostare la tecnologia di Pirelli dall’Italia, anche solo per firmare un accordo di cessione di tecnologia, ci vuole il 90% delle azioni che votino a favore. E io e un gruppo di azionisti italiani abbiamo più del 10% dell’azienda.
C’è un errore strategico commesso in questi anni alla guida di Pirelli?
Errori tanti. Errori strategici per fortuna no. Perché gli errori strategici sono quelli che si pagano. L’approfondimento maggiore è quello proprio sugli aspetti strategici perché a me interessa il futuro dell’azienda. Chiunque faccia l’imprenditore ha un senso dell’eternità diverso: conosce i propri limiti, ma vede l’azienda oltre la propria vita.
Ha parlato di futuro. Qualche tempo fa ha detto che nel 2020 avrebbe scelto il successore. Ha scelto chi sarà il successore di Pirelli?
Ho quei limiti che altre aziende non hanno, quindi le scadenze sono diverse. Ho un gruppo di manager che sono molto bravi, quindi l’azienda è in buone mani. Poi il termine “successione” ha tante sfaccettature. Credo comunque che, dal punto di vista del futuro, l’azienda non abbia problemi.
E lei come se la immagina la Pirelli del futuro?
Pirelli ha la fortuna di essere radicata su un prodotto che per i prossimi decenni non sembra essere sostituibile, perché l’unico modo per renderlo sostituibile sarebbe avere le vetture che volano; questo, però, creerebbe un traffico aereo complicato. E non c’è per ora nulla in vista. Quindi la vedo come un’azienda che deve lavorare sempre di più sulle tecnologie e sugli uomini per poter essere nella posizione in cui è proiettata, anche tra 30-40 anni.