A 20 anni dalle stragi esce Le ultime parole di Falcone e Borsellino, un libro che raccoglie le testimonianze dei due giudici. In questo estratto l'ex direttore degli affari penali ricorda il suo primo incontro con la criminalità organizzata
di Giovanni Falcone
Fin da bambino ho respirato giorno dopo giorno aria di mafia, violenza, estorsioni, assassinii. C’erano stati i grandi processi che si erano conclusi regolarmente con un nulla di fatto. La mia cultura progressista mi faceva inorridire di fronte alla brutalità, agli attentati, alle aggressioni; guardavo a Cosa nostra come all’idra dalle sette teste: qualcosa di magmatico, di onnipresente e invincibile, responsabile di tutti i mali del mondo. [p. 39]
La mafia è entrata subito nel raggio dei miei interessi professionali con uno dei grandi processi del dopoguerra. Dieci assassinii e la mafia di Marsala dietro le sbarre. Mi indicarono un armadio pieno di pratiche, dicendomi: «Leggile, tutte!». Era il novembre 1967 e puntuali come un orologio svizzero cominciarono ad arrivarmi cartoline con disegni di bare e di croci. È una cosa che tocca agli esordienti e non ne rimasi colpito più di tanto. Il tuffo improvviso nell’universo di Cosa nostra è stato appassionante, intenso, formativo. La mia curiosità per la mafia, già forte, aumentò nel corso delle indagini. Ma non era facile, da Marsala o Trapani, avere una visione unitaria del fenomeno mafioso. Nel 1978 sono quindi tornato a Palermo e, nonostante avessi fatto domanda di assegnazione all’Ufficio istruzione, sono stato subito spedito al tribunale fallimentare. Ci sono rimasto solo un anno per essere assegnato, poi, come giudice istruttore, al gruppo che faceva capo al consigliere Rocco Chinnici. Sono stati anni di lavoro luminosi. [pp. 40-41]
Ho vissuto [a Palermo, ndr] fino all’età di venticinque anni, conoscevo a fondo la città. Abitavo nel centro storico, in piazza Magione, in un edificio di nostra proprietà. Accanto c’erano i catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari. Era uno spettacolo la domenica vederli uscire da quei buchi, belli, puliti, eleganti, i capelli impomatati, le scarpe lucide, lo sguardo fiero. Dopo tredici anni di assenza, sono tornato a Palermo e ho trovato una città che aveva cambiato faccia. Il centro storico era stato quasi abbandonato. E nella Palermo liberty le ultime splendide ville erano state demolite per far posto a brutti casermoni. Ho trovato quindi una città deturpata, involgarita, che in parte aveva perso la propria identità.
Sono andato ad abitare in via Notarbartolo, una strada che scende verso via della Libertà, il cuore di Palermo. L’amministratore dello stabile per prima cosa mi ha spedito una lettera ufficiale che in relazione alla mia presenza in quell’immobile e nel timore di attentati ammoniva: «L’amministrazione declina ogni resposabilità per i danni che potrebbero essere recati alle parti comuni dell’edificio...». Un giorno, arrivato davanti a casa, con il mio solito seguito di sirene spiegate, purtroppo, di auto della polizia e di agenti con le armi in pugno, ho avuto il tempo di sentire un passante sussurrare: «Certo che per essere protetto in questo modo, deve aver commesso qualcosa di malvagio!». [pp. 88-89]
Brani tratti da Giovanni Falcone, in collaborazione con Marcelle Padovani, Cose di cosa nostra, Bur, Milano 2005.
©Chiarelettere editore s.r.l.
Tratto da Le ultime parole di Falcone e Borsellino, a cura di Antonella Mascali, Chiarelettere, pp. 192, euro 12,90.
Fin da bambino ho respirato giorno dopo giorno aria di mafia, violenza, estorsioni, assassinii. C’erano stati i grandi processi che si erano conclusi regolarmente con un nulla di fatto. La mia cultura progressista mi faceva inorridire di fronte alla brutalità, agli attentati, alle aggressioni; guardavo a Cosa nostra come all’idra dalle sette teste: qualcosa di magmatico, di onnipresente e invincibile, responsabile di tutti i mali del mondo. [p. 39]
La mafia è entrata subito nel raggio dei miei interessi professionali con uno dei grandi processi del dopoguerra. Dieci assassinii e la mafia di Marsala dietro le sbarre. Mi indicarono un armadio pieno di pratiche, dicendomi: «Leggile, tutte!». Era il novembre 1967 e puntuali come un orologio svizzero cominciarono ad arrivarmi cartoline con disegni di bare e di croci. È una cosa che tocca agli esordienti e non ne rimasi colpito più di tanto. Il tuffo improvviso nell’universo di Cosa nostra è stato appassionante, intenso, formativo. La mia curiosità per la mafia, già forte, aumentò nel corso delle indagini. Ma non era facile, da Marsala o Trapani, avere una visione unitaria del fenomeno mafioso. Nel 1978 sono quindi tornato a Palermo e, nonostante avessi fatto domanda di assegnazione all’Ufficio istruzione, sono stato subito spedito al tribunale fallimentare. Ci sono rimasto solo un anno per essere assegnato, poi, come giudice istruttore, al gruppo che faceva capo al consigliere Rocco Chinnici. Sono stati anni di lavoro luminosi. [pp. 40-41]
Ho vissuto [a Palermo, ndr] fino all’età di venticinque anni, conoscevo a fondo la città. Abitavo nel centro storico, in piazza Magione, in un edificio di nostra proprietà. Accanto c’erano i catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari. Era uno spettacolo la domenica vederli uscire da quei buchi, belli, puliti, eleganti, i capelli impomatati, le scarpe lucide, lo sguardo fiero. Dopo tredici anni di assenza, sono tornato a Palermo e ho trovato una città che aveva cambiato faccia. Il centro storico era stato quasi abbandonato. E nella Palermo liberty le ultime splendide ville erano state demolite per far posto a brutti casermoni. Ho trovato quindi una città deturpata, involgarita, che in parte aveva perso la propria identità.
Sono andato ad abitare in via Notarbartolo, una strada che scende verso via della Libertà, il cuore di Palermo. L’amministratore dello stabile per prima cosa mi ha spedito una lettera ufficiale che in relazione alla mia presenza in quell’immobile e nel timore di attentati ammoniva: «L’amministrazione declina ogni resposabilità per i danni che potrebbero essere recati alle parti comuni dell’edificio...». Un giorno, arrivato davanti a casa, con il mio solito seguito di sirene spiegate, purtroppo, di auto della polizia e di agenti con le armi in pugno, ho avuto il tempo di sentire un passante sussurrare: «Certo che per essere protetto in questo modo, deve aver commesso qualcosa di malvagio!». [pp. 88-89]
Brani tratti da Giovanni Falcone, in collaborazione con Marcelle Padovani, Cose di cosa nostra, Bur, Milano 2005.
©Chiarelettere editore s.r.l.
Tratto da Le ultime parole di Falcone e Borsellino, a cura di Antonella Mascali, Chiarelettere, pp. 192, euro 12,90.