Scoprirsi vegetariani. Con l'aiuto di Plutarco

Cronaca

L’autore classico non si abbandona al biasimo per chi mangia carne. Si stupisce piuttosto del coraggio del primo uomo che ha osato fare qualcosa di così ripugnante. È questa l’interpretazione di Marcela Jacub in un nuovo saggio edito da Medusa. L’estratto

di Marcela Iacub

Quella mattina, al risveglio, ho guardato i libri sugli animali che avevo in casa e che non avevo ancora letto.
Dato che era domenica e che mi permetto in quel giorno di riposo letture meno specifiche, ho scelto Del mangiare carne di Plutarco, il cui titolo aveva suscitato in me, quando l’avevo acquistato, un’attrazione e assieme un disagio.
Mi dissi che avrei letto quel testo minuscolo pieno di inutili bellezze mentre facevo colazione in cucina. Era un esemplare del Mangiare carne tradotto da Jacques Amyot nel XVI secolo, il che, mi dicevo, avrebbe accresciuto ancor più le distanze infinite che separavano le mie preoccupazioni politiche riguardo gli animali, da quelle di un autore morto da duemila anni.
Pensavo che avrei assaporato quelle pagine prima di andare al mercato Blanqui – perché avevo traslocato e lasciato il macellaio del mercato Saint-Martin – per acquistare delle salsicce di pollo e una coscia di tacchino arrosto. Che, insomma, avrei assaporato quella letteratura prima di assaporare la carne.
Ma, aperto il libro, lessi questo:

Tu vuoi sapere secondo quale criterio Pitagora si astenesse dal mangiar carne, mentre io mi domando con stupore in quale circostanza e con quale disposizione spirituale l’uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto; e imbandendo mense di corpi morti e corrotti, diede altresì il nome di manicaretti e di delicatezze a quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e vivevano. Come poté la vista tollerare il sangue di creature sgozzate, scorticate, smembrate, come riuscì l’olfatto a sopportarne il fetore? Come mai quella lordura non stornò il senso del gusto, che veniva a contatto con le piaghe di altre creature e che sorbiva umori e sieri essudati da ferite mortali? Si muovevano le pelli, le carni muggivano sugli spiedi cotte e crude, e come di vacche si udiva una voce. Questo è invenzione e leggenda; nondimeno, è veramente mostruoso che un individuo abbia fame di esseri che ancora muggiscono, insegnando di quali animali ci si debba nutrire, mentre questi sono ancora in vita ed emettono la propria voce, e stabilendo determinati modi di condire, cuocere e imbandire le loro carni.
[trad. di D. Magini, ndt]

La parola ancora mi inchiodò alla sedia, prima di prendermi alla gola e di attaccarsi poi al mio stomaco e ai miei polmoni. Non potevo né muovermi, né pensare, né sentire altra cosa che quella parola.
Ora, in questo stesso istante, per contraccolpo, posso a malapena scriverla senza fremere. E ho continuato a leggerla tuttavia. Era necessario che, in quella sorta di passività, mi lasciassi attaccare interamente da quella bestia feroce che avevo tra le mani.
Ed ecco i paragrafi che mi finirono:

Nulla turba comunque il nostro senso del pudore, non il fiorente aspetto di queste creature sventurate, non il fascino della loro voce armoniosa, non l’accortezza della loro mente, né la purezza del loro modo di vivere e la loro straordinaria intelligenza.
Invece, per un minuscolo pezzo di carne priviamo un essere vivente della luce del sole e del corso dell’esistenza, per cui esso è nato ed è stato generato. Per di più, crediamo che i suoni e le strida che gli animali emettono siano voci inarticolate, e non piuttosto preghiere, suppliche e richieste di giustizia: poiché ognuno di loro proclama: «Non cerco di scongiurare la tua necessità, ma la tua tracotanza; uccidimi per mangiare, ma non togliermi la vita per mangiare in modo più raffinato».


Ma voi, uomini d’oggi, da quale follia e da quale assillo siete spronati ad aver sete di sangue, voi che disponete del necessario con una tale sovrabbondanza? Perché calunniate la terra, come se non fosse in grado di nutrirvi? [...] Non vi vergognate di mischiare i frutti coltivati al sangue delle uccisioni? Dite che sono selvatici i serpenti, le pantere e i leoni, mentre voi stessi uccidete altre vite, senza cedere affatto a tali animali quanto a crudeltà.
Ma per loro il sangue è un cibo vitale, invece per voi è semplicemente una delizia del gusto. Non mangiamo di certo leoni e lupi per nostra difesa; al contrario, questi li lasciamo stare, mentre catturiamo e uccidiamo le bestie innocue e mansuete, prive di pungiglioni e di denti per morderci: creature che, per Zeus, la natura pare aver generato per la loro bellezza e leggiadria... Se però sei convinto di essere naturalmente predisposto a tale alimentazione, prova anzitutto a uccidere tu stesso l’animale che vuoi mangiare. Ma ammazzalo tu in persona, con le tue mani, senza ricorrere a un coltello, a un bastone o a una scure. Fa’ come i lupi, gli orsi e i leoni, che ammazzano da sé quanto mangiano: uccidi un bue a morsi o un porco con la bocca, oppure dilania un agnello o una lepre, e divorali dopo averli aggrediti mentre sono ancora vivi, come fanno le bestie. Ma se aspetti che il tuo cibo sia morto e se l’anima presente in quelle creature ti fa vergognare di goderne la carne, perché continui a mangiare contro natura gli esseri dotati di anima?
E dunque quale pranzo che comporti l’uccisione di un essere vivente non è un eccesso? Ci sembra che la vita sia una spesa da poco? Non intendo certo che possa trattarsi della vita di tua madre o di tuo padre, di un amico o di un figlio, come Empedocle; mi riferisco piuttosto a una vita che possiede delle sensazioni, vista e udito, immaginazione e intelligenza: quella vita che ogni creatura ha ottenuto dalla natura per conseguire ciò che le è proprio e per fuggire ciò che le è estraneo».

Mi ci volle un po’ di tempo per comprendere come e perché quel piccolo libro aveva rovinato per sempre le condizioni che mi avevano permesso in passato di essere la mangiatrice di carne che sono stata per quasi tutta la vita. Per comprendere come e perché questa tattica, che consiste di servirsi della poesia per dire la verità su una pratica, è divenuta per me un evento tragico.
Plutarco non si abbandona al biasimo per coloro che mangiano carne o all’elogio di coloro che non ne mangiano. Si stupisce, si meraviglia del coraggio, del terribile coraggio che deve aver avuto il primo uomo per osare fare qualcosa di così ripugnante alla sua sensibilità, alla sua moralità, che è il fatto di mangiare carne, di “far carne” dell’uccisione di animali...
Titolo originale: Confessions d’une mangeuse de viande © 2011 by Librairie Arthème Fayard Traduzione di Luana Salvarani © 2011 by Edizioni Medusa

Tratto da Marcela Iacub, Confessioni di una mangiatrice di carne, Medusa, pp.115, euro 10

Marcela Iacub, nata a Buenos Aires nel 1964, è giurista e ricercatrice presso il CNRS. Si occupa principalmente di giurisprudenza del corpo, del rapporto tra norma e vita e di storia della sessualità. È autrice di numerosi saggi.

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