Gildo Claps: “Così i sospetti su Restivo divennero certezze”

Cronaca
La copertina del libro scritto da Gildo Claps, fratello della ragazza potentina uccisa nel 1993 e abbandonata nel sottotetto di una chiesa per 17 anni, e da Federica Sciarelli, giornalista del Tg3 e conduttrice di ''Chi l'ha visto?''
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“Sai sorellina, sembra quasi che nessuno volesse trovarti ma che tanti sapessero dov’eri”. In un libro il fratello di Elisa, insieme con Federica Sciarelli, racconta i 18 anni depistaggi, silenzi e omissioni. Leggi un’anticipazione

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Di Gildo Claps

(...) «Gildo, hanno trovato Elisa, era nel sottotetto della chiesa, è stata lì per tutti questi anni.» Sentii una fitta lancinante alla bocca dello stomaco, il dolore era insopportabile, lampi di luce accecante riempivano la mia visuale. Mi accasciai sul sedile e in un attimo che durò un’eternità mi scorsero rapidi davanti agli occhi tutti quegli anni, come tanti fotogrammi impazziti che si succedevano senza una logica. Da quello stato di trance mi riscosse la voce di don Marcello, avevo perfino dimenticato di tenere il cellulare all’orecchio. Dopo essersi sincerato del mio stato, mi chiese preoccupato se fossi in grado di guidare fino a Potenza. Cercai di rassicurarlo ma in realtà ero completamente fuori di me.

Con uno sforzo enorme formulai la domanda che non avevo avuto la forza di rivolgergli prima: chi l’aveva trovata e come. Mi rispose che le notizie erano ancora confuse ma che, da quel poco che aveva saputo, a rinvenire il corpo era stato un operaio che stava cercando di individuare la causa di alcune infiltrazioni comparse nel solaio della chiesa. Si era spinto nel sottotetto e alla luce fioca di un cellulare aveva scoperto ciò che restava di Elisa. Aggiunse che anche lui era in viaggio, stava rientrando da Torino, e al momento era tutto quello che poteva dirmi. Nel frattempo vedevo il display del telefono illuminarsi di continuo, evidentemente la notizia cominciava a circolare. Don Marcello mi chiese di mamma, avevamo pensato entrambi alla stessa cosa. Gli risposi che probabilmente era a casa con mio padre, dovevo fare in modo che a darle la notizia fosse qualcuno di famiglia, ero letteralmente terrorizzato al pensiero della sua reazione. Fu proprio questo a darmi la forza di tornare in me stesso. Lo salutai, non senza prima averlo rassicurato per l’ennesima volta sulle mie condizioni.

Non appena chiusi la comunicazione il telefono prese immediatamente a squillare. Respinsi la chiamata e composi rapidamente il numero di mio fratello. Mi rispose dopo quella che mi parve un’eternità. Domandai se fosse a Potenza, il mio tono tradiva tutta l’agitazione di cui ero preda, tant’è che mi chiese subito cosa fosse successo. Raccolsi tutto il coraggio di cui ero capace e comunicai anche a lui quello che nel nostro cuore avevamo sempre saputo. Il silenzio che seguì fu più eloquente di mille parole e sembrò unirci in un doloroso abbraccio. Quando riprese a parlare mi disse che stava rientrando da Portici, nel cui commissariato stava infatti prestando servizio. Ancora una volta il destino aveva giocato con noi, ci separavano meno di dieci chilometri. Per anni avevamo proceduto l’uno di fianco all’altro lungo il cammino tortuoso che portava alla verità e ora, quella verità, ci raggiungeva proprio mentre stavamo percorrendo la stessa strada. Anche Luciano, dopo aver incassato il colpo, si preoccupò subito per mamma. Gli dissi che probabilmente non sapeva ancora nulla ed era importante mandare subito qualcuno a casa. Sapevo che Irene, mia moglie, avendo lezione a scuola, sarebbe stata irraggiungibile. Mio fratello mi tranquillizzò dicendomi che avrebbe avvisato subito Caterina, mia cognata, che si sarebbe precipitata a casa dei miei. Mi chiese se volevo che si fermasse alla prima area di servizio in modo che potessi raggiungerlo ma lo pregai di continuare, era essenziale che almeno uno di noi due arrivasse al più presto a Potenza.

Non feci in tempo a riagganciare che il telefono squillò di nuovo. Per settimane non avrebbe mai smesso. Prima di rispondere guardai il nome sul display, non me la sentivo di parlare con chiunque. Era Federica Sciarelli, che provava a chiamarmi da quando don Marcello mi aveva dato la notizia. Per la mia famiglia, ormai, era diventata più che un’amica, le risposi quindi senza esitare: «Gildo, dove sei?» mi sentii ripetere per la terza volta in pochi minuti. Prima che proseguisse mi affrettai a interromperla. «So già tutto, stai tranquilla.» «Gildo, ti voglio bene, sono lì vicina a voi.» La sua voce fu rotta dall’emozione e per qualche secondo il telefono restò muto. Poi sentii tutta la sua rabbia, la stessa che, dopo lo shock dei primi minuti, cominciava a montare come un fiume in piena dentro di me. «Ne eravamo convinti tutti, Gildo, è stato quello stronzo, Elisa non è mai uscita viva dalla chiesa» fu il suo commento. «Ci sono voluti diciassette anni per sapere la verità, e a gridarla siamo stati i soli per tutto questo tempo.» Aveva dato voce ai miei pensieri. Dal primo giorno, i miei genitori, io, Luciano, ci eravamo convinti che Danilo nascondesse la verità, e con gli anni i sospetti erano diventati certezze. Ma in tanti avevano preferito guardare altrove, non accettare quello che per noi era evidente. L’unica vera sentenza pronunciata in quegli anni era stata per noi, e non aveva contemplato appello o remissione di pena. Confidai a Federica la mia preoccupazione per mamma e ancora una volta ricevetti la conferma di quanto tenesse a noi. Mi disse che l’avrebbe chiamata subito e l’avrebbe tenuta al telefono finché Caterina non fosse arrivata a casa sua: con la linea occupata sarebbe stato impossibile per chiunque contattarla. Prima di lasciarmi si fece promettere che sarei stato calmo, il fatto che in quella situazione avrei dovuto guidare fino a Potenza la preoccupava non poco.

Quel viaggio è stato forse il più lungo della mia vita. Il telefono sembrava come impazzito, faticavo a tenere gli occhi sulla strada distratto com’ero dalle continue chiamate. Dopo Salerno, con il traffico che si era fatto più rado, pestai a fondo sul pedale dell’acceleratore e la macchina balzò rabbiosa in avanti prendendo rapidamente una velocità folle. Nei pochi minuti in cui il telefono restava muto sentivo la mia voce risuonare nell’abitacolo, gridavo così forte da coprire anche il rombo cupo del motore spinto al limite. In quell’urlo disumano c’erano diciassette lunghi anni di rabbia, rancore, odio, mortificazioni, sofferenza. Era come se qualcuno avesse finalmente abbattuto gli argini facendo fluire tutto il dolore represso per un tempo infinito. All’altezza di Sicignano mi accorsi in ritardo dell’uscita, senza curarmi di chi veniva dietro affondai il piede sul pedale del freno e sterzai bruscamente per cercare di imboccare lo svincolo. L’auto perse aderenza e cominciò a sbandare, riuscii a correggere in parte la traiettoria e per miracolo mi fermai a pochi centimetri dalla barriera. Ero talmente fuori di me da non registrare nemmeno il fatto che avevo appena corso il rischio di ammazzarmi. Riavviai il motore, che nel frattempo si era spento, e percorsi gli ultimi quaranta chilometri che ancora mi separavano da Potenza. In quell’ultimo tratto parlai anche con mia moglie Irene. Con lei riuscii finalmente a piangere e quelle lacrime mi restituirono l’ultima immagine di Elisa, quella che avevo nascosto nel mio cuore quasi a preservarla da tutto quell’orrore.

Eravamo sulla porta di casa, quella domenica di tanti anni fa, il suo dolce sorriso e poi la promessa di rivederci di lì a poco. Dopo, il buio… Quando vidi il cartello che segnalava l’uscita di Potenza erano da poco passate le due. Imboccai a velocità sostenuta la rampa di accesso e, grazie al traffico scarso di quell’ora, raggiunsi rapidamente via Mazzini. Quando aprii la porta, il gelo che regnava in casa spazzò via il tepore di quella giornata primaverile. Mamma corse ad abbracciarmi singhiozzando, mio padre aveva la testa tra le mani e sembrava non rendersi conto di quello che stava succedendo. Caterina e Irene parevano come in trance, continuavano a ripetere ossessivamente la stessa frase: «È sempre stata lì, è sempre stata lì». Per un attimo davanti ai miei occhi prese a svolgersi la stessa scena del pomeriggio in cui Elisa era scomparsa, vidi gli stessi volti smarriti e segnati dall’angoscia, deformati però dallo specchio del tempo. Mamma mi fece sedere e preparò un caffè. Non avevamo bisogno di dirci molto, quella lunga ricerca era finita. Adesso la verità era davanti a noi, l’avevamo cercata e temuta al tempo stesso ma in ogni caso ci strappava dal limbo in cui eravamo stati relegati per tutti quegli anni.
© 2011 Rizzoli

Tratto da Gildo Claps e Federica Sciarelli, Per Elisa, pp. 385-389, euro 19,50.

Gildo Claps, fratello di Elisa, da anni combatte insieme al fratello Luciano, alla madre Filomena e al padre Antonio la sua battaglia per la verità. Nel 2002 ha fondato l'Associazione Penelope, che riunisce i familiari di persone scomparse.

Federica Sciarelli, giornalista del Tg3, conduce dal 2004 Chi l'ha visto?. Per Rizzoli ha pubblicato Tre bravi ragazzi (2006), intensa ricostruzione del massacro del Circeo, Con il sangue agli occhi (2007), le confessioni di un boss della banda della Magliana e Il mostro innocente (2010), sul caso Girolimoni.


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