"Primo, non diffamare": difendersi nell’era delle bufale
CronacaDal caso Pisapia al falso scoop del minareto di Milano; dal giornalista a libro paga dei servizi segreti ai tanti episodi di disinformazione e diffamazione. Un libro di Luca Bauccio analizza il mondo dei media e spiega come reagire. LEGGINE UN ESTRATTO
di Luca Bauccio
I media sono divenuti un ricettacolo di diffamazione. Si diffama sui quotidiani, nei programmi televisivi, nei blog, alla radio. La vittima può essere chiunque: un vicino di casa antipatico che si ritrova su internet bollato come un guardone; un politico che viene accusato di essere un corrotto o un ladro, meglio se di auto; un magistrato accusato di essere un cancro, meglio se in metastasi; un imprenditore sulla cui onesta negli affari si fanno allusioni, o un funzionario pubblico sul cui operato si avanzano dubbi; un artista che ha esternato giudizi politici non graditi e per questo punito con illazioni sulla sua fedeltà.
Oppure noi stessi, sul cui conto chiunque può scrivere in questo momento qualunque accusa e farla diventare pubblica con la straordinaria velocità e viralità di internet, con la diffusività di un giornale, con l’autorevolezza di un telegiornale o attraverso l’illusoria confidenzialità di Facebook.
Nel nostro approssimativo elenco c’è pure la pubblicità, efficacissimo veicolo di trasmissione di offese a intere categorie di persone. Solo per indicarne alcune: i grassi, i neri, le etnie, i poveri, gli anziani, gli omosessuali, le donne.
Si diffama per errore, per imperizia, per calcolo, per interesse politico, per odio, per convenienza, per soldi, per potere e per stupidita, sordida stupidita. Le categorie di diffamatori sono le più varie: politici, giornalisti, giornalistoidi, icone votive sotto scorta, 13 apprendisti stregoni, blogger incontinenti, polemisti che della diffamazione hanno fatto una sicura fonte di reddito.
Sotto la diffamazione c’è quasi sempre un falso, un fatto che non si è mai verificato o che non si è verificato nei termini riferiti, una “mezza verità”. Un caso di mezza verità e riferire che Mario Bianchi è stato indagato per un reato e dimenticarsi di dire che l’indagine è stata archiviata. Si dice la verità, per metà pero. L’altra metà non la si racconta e voi siete convinti che quel tizio o è ancora indagato o è stato pure condannato.
Come nel caso del candidato sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Al termine del faccia a faccia televisivo su Sky il sindaco uscente Letizia Moratti lancia la sua accusa: Pisapia è stato amnistiato per il reato di furto e l’amnistia non equivale ad una assoluzione. In altri termini, questo era il messaggio, lo sfidante non poteva essere considerato un innocente ma un ladro, salvo per il miracolo di un’amnistia.
Il sindaco, come tutti sanno, si era limitato a riferire – neppure correttamente – l’esito del primo grado del giudizio, dimenticandosi di dire cos’era successo nei successivi gradi: Pisapia era stato assolto con formula piena. Anche se Pisapia riusciva a smentire davanti a telecamere e giornalisti la mezza verità diffusa dal suo avversario, il danno era comunque fatto, la falsità aveva iniziato a circolare e tanto bastava a giustificare congetture, malevolenze, capi di imputazioni paralleli: era amico dei terroristi, frequentatore di cattivi maestri ed estremisti, altro che moderato! Se cosi è andata al candidato sindaco di Milano, pensate cosa accade nei tanti casi di persone anonime, senza visibilità.
Per loro, non rimane che rassegnarsi a sopportare gli effetti della calunnia. In un caso di cui mi sono occupato recentemente, un giovane candidato in una lista del centrodestra viene contattato da una giornalista la quale si dice interessata alla sua scelta di campo: il padre è noto per essere di sinistra e la candidatura del figlio con il centrodestra è già una notizia.
La giornalista fa domande di colore, si mostra affabile. Chiama pure il padre, il quale dà le risposte di un padre: mio figlio è libero di fare le sue scelte, gli auguro ogni bene. Esce l’articolo e, sorpresa, il giovane candidato per il centrodestra si ritrova ritratto come il candidato figlio di uno che “è stato indagato” per un grave reato.
Scoppia uno scandalo: in molti accusano il giovane candidato di non aver avvisato di tale situazione i dirigenti del partito, gli avversari interni montano il caso, gli alleati si affrettano a dissociarsi dalla candidatura, si scava nella vita del padre, si avanzano dubbi e sospetti sulle intenzioni del figlio candidato.
Risultato, il mio giovane cliente rinuncia a candidarsi.
A nulla in quel caso e valso spiegare che la giornalista aveva omesso di raccontare una circostanza importante che cambiava radicalmente le cose: l’indagine a carico del padre era stata chiusa con il proscioglimento già all’udienza preliminare e la sentenza era divenuta definitiva. Il figlio dell’indagato era nella realtà il figlio di uno che, ingiustamente denunciato, era stato assolto con sentenza definitiva. In alcuni casi la diffamazione consiste in un giudizio esasperato, gratuitamente volgare. Pensiamo all’insulto, alla frase denigratoria, alla parola offensiva pronunciata fuori da un ragionamento.
In altri casi, la diffamazione si cela dietro affermazioni neutre, in apparenza prive di malevolenza, o sotto forma di interrogativi ingenui; forme, queste, che sono un espediente collaudato per diffamare senza assumersi la responsabilità di affermare apertamente ciò che si sa che è indimostrabile, falso, ingannevole. In altri casi ancora, il diffamatore raggiunge il suo scopo attraverso l’accostamento di fatti veri fra loro scollegati, ma che una volta legati sintatticamente l’uno all’altro producono una notizia nuova, diversa da quella che ciascun fatto esprime.
Falsa, pero. In questi casi il diffamatore formalmente ha solo riferito fatti veri e, statene certi, si difenderà affermando che lui non voleva certo offendere e che i significati offensivi che voi ne avete tratto sono frutto delle vostre elucubrazioni e, manco a dirsi, della vostra smania di far cassa.
Si diffama anche per depistare, per inquinare, per distrarre l’attenzione. Lo sanno bene i magistrati della Procura di Milano Armando Spataro e Ferdinando Pomarici che, nel bel mezzo delle indagini sul sequestro di Abu Omar, si ritrovano tra i piedi un noto giornalista, l’allora vicedirettore di Libero Renato Farina. Costui chiede loro un incontro per un’intervista. I magistrati concedono l’intervista. Nell’incontro il giornalista cerca di carpire informazioni e con l’occasione diffonde insinuazioni, voci, fattoidi sul coinvolgimento nel sequestro di un noto magistrato e della Digos di Milano. Butta lì la voce, chissà che i magistrati non la raccolgano e la sviluppino. Peccato però che i magistrati lo abbiano intercettato e sappiano tutto del suo piano. E chissà cosa avranno pensato quando, al termine dell’intervista fasulla, hanno ascoltato il giornalista depistatore che, compiaciuto della sua missione, aggiornava al telefono il suo referente dei servizi segreti.
Il giornalista verrà indagato per favoreggiamento e patteggerà una pena a sei mesi di reclusione; dopo qualche tempo sarà radiato dall’albo dei giornalisti (non traete da questa storia conclusioni affrettate però: il giornalista radiato, un tempo a libro paga dei servizi segreti, scrive ancora sui quotidiani ed è stato eletto deputato).
© 2011 Luca Bauccio
Tratto da Luca Bauccio, Primo, non diffamare, pp. 148, euro 12,50
Luca Bauccio, 42 anni, avvocato, opera a Milano e si occupa di diritto penale e di diritto dell’informazione. Ha la passione dei diritti umani e da sempre si dedica alla difesa delle minoranze. Ha rappresentato come parte civile la moglie di Abu Omar nel processo contro i suoi sequestratori e difende leader politici che in varie parti del mondo si oppongono ai tiranni.
I media sono divenuti un ricettacolo di diffamazione. Si diffama sui quotidiani, nei programmi televisivi, nei blog, alla radio. La vittima può essere chiunque: un vicino di casa antipatico che si ritrova su internet bollato come un guardone; un politico che viene accusato di essere un corrotto o un ladro, meglio se di auto; un magistrato accusato di essere un cancro, meglio se in metastasi; un imprenditore sulla cui onesta negli affari si fanno allusioni, o un funzionario pubblico sul cui operato si avanzano dubbi; un artista che ha esternato giudizi politici non graditi e per questo punito con illazioni sulla sua fedeltà.
Oppure noi stessi, sul cui conto chiunque può scrivere in questo momento qualunque accusa e farla diventare pubblica con la straordinaria velocità e viralità di internet, con la diffusività di un giornale, con l’autorevolezza di un telegiornale o attraverso l’illusoria confidenzialità di Facebook.
Nel nostro approssimativo elenco c’è pure la pubblicità, efficacissimo veicolo di trasmissione di offese a intere categorie di persone. Solo per indicarne alcune: i grassi, i neri, le etnie, i poveri, gli anziani, gli omosessuali, le donne.
Si diffama per errore, per imperizia, per calcolo, per interesse politico, per odio, per convenienza, per soldi, per potere e per stupidita, sordida stupidita. Le categorie di diffamatori sono le più varie: politici, giornalisti, giornalistoidi, icone votive sotto scorta, 13 apprendisti stregoni, blogger incontinenti, polemisti che della diffamazione hanno fatto una sicura fonte di reddito.
Sotto la diffamazione c’è quasi sempre un falso, un fatto che non si è mai verificato o che non si è verificato nei termini riferiti, una “mezza verità”. Un caso di mezza verità e riferire che Mario Bianchi è stato indagato per un reato e dimenticarsi di dire che l’indagine è stata archiviata. Si dice la verità, per metà pero. L’altra metà non la si racconta e voi siete convinti che quel tizio o è ancora indagato o è stato pure condannato.
Come nel caso del candidato sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Al termine del faccia a faccia televisivo su Sky il sindaco uscente Letizia Moratti lancia la sua accusa: Pisapia è stato amnistiato per il reato di furto e l’amnistia non equivale ad una assoluzione. In altri termini, questo era il messaggio, lo sfidante non poteva essere considerato un innocente ma un ladro, salvo per il miracolo di un’amnistia.
Il sindaco, come tutti sanno, si era limitato a riferire – neppure correttamente – l’esito del primo grado del giudizio, dimenticandosi di dire cos’era successo nei successivi gradi: Pisapia era stato assolto con formula piena. Anche se Pisapia riusciva a smentire davanti a telecamere e giornalisti la mezza verità diffusa dal suo avversario, il danno era comunque fatto, la falsità aveva iniziato a circolare e tanto bastava a giustificare congetture, malevolenze, capi di imputazioni paralleli: era amico dei terroristi, frequentatore di cattivi maestri ed estremisti, altro che moderato! Se cosi è andata al candidato sindaco di Milano, pensate cosa accade nei tanti casi di persone anonime, senza visibilità.
Per loro, non rimane che rassegnarsi a sopportare gli effetti della calunnia. In un caso di cui mi sono occupato recentemente, un giovane candidato in una lista del centrodestra viene contattato da una giornalista la quale si dice interessata alla sua scelta di campo: il padre è noto per essere di sinistra e la candidatura del figlio con il centrodestra è già una notizia.
La giornalista fa domande di colore, si mostra affabile. Chiama pure il padre, il quale dà le risposte di un padre: mio figlio è libero di fare le sue scelte, gli auguro ogni bene. Esce l’articolo e, sorpresa, il giovane candidato per il centrodestra si ritrova ritratto come il candidato figlio di uno che “è stato indagato” per un grave reato.
Scoppia uno scandalo: in molti accusano il giovane candidato di non aver avvisato di tale situazione i dirigenti del partito, gli avversari interni montano il caso, gli alleati si affrettano a dissociarsi dalla candidatura, si scava nella vita del padre, si avanzano dubbi e sospetti sulle intenzioni del figlio candidato.
Risultato, il mio giovane cliente rinuncia a candidarsi.
A nulla in quel caso e valso spiegare che la giornalista aveva omesso di raccontare una circostanza importante che cambiava radicalmente le cose: l’indagine a carico del padre era stata chiusa con il proscioglimento già all’udienza preliminare e la sentenza era divenuta definitiva. Il figlio dell’indagato era nella realtà il figlio di uno che, ingiustamente denunciato, era stato assolto con sentenza definitiva. In alcuni casi la diffamazione consiste in un giudizio esasperato, gratuitamente volgare. Pensiamo all’insulto, alla frase denigratoria, alla parola offensiva pronunciata fuori da un ragionamento.
In altri casi, la diffamazione si cela dietro affermazioni neutre, in apparenza prive di malevolenza, o sotto forma di interrogativi ingenui; forme, queste, che sono un espediente collaudato per diffamare senza assumersi la responsabilità di affermare apertamente ciò che si sa che è indimostrabile, falso, ingannevole. In altri casi ancora, il diffamatore raggiunge il suo scopo attraverso l’accostamento di fatti veri fra loro scollegati, ma che una volta legati sintatticamente l’uno all’altro producono una notizia nuova, diversa da quella che ciascun fatto esprime.
Falsa, pero. In questi casi il diffamatore formalmente ha solo riferito fatti veri e, statene certi, si difenderà affermando che lui non voleva certo offendere e che i significati offensivi che voi ne avete tratto sono frutto delle vostre elucubrazioni e, manco a dirsi, della vostra smania di far cassa.
Si diffama anche per depistare, per inquinare, per distrarre l’attenzione. Lo sanno bene i magistrati della Procura di Milano Armando Spataro e Ferdinando Pomarici che, nel bel mezzo delle indagini sul sequestro di Abu Omar, si ritrovano tra i piedi un noto giornalista, l’allora vicedirettore di Libero Renato Farina. Costui chiede loro un incontro per un’intervista. I magistrati concedono l’intervista. Nell’incontro il giornalista cerca di carpire informazioni e con l’occasione diffonde insinuazioni, voci, fattoidi sul coinvolgimento nel sequestro di un noto magistrato e della Digos di Milano. Butta lì la voce, chissà che i magistrati non la raccolgano e la sviluppino. Peccato però che i magistrati lo abbiano intercettato e sappiano tutto del suo piano. E chissà cosa avranno pensato quando, al termine dell’intervista fasulla, hanno ascoltato il giornalista depistatore che, compiaciuto della sua missione, aggiornava al telefono il suo referente dei servizi segreti.
Il giornalista verrà indagato per favoreggiamento e patteggerà una pena a sei mesi di reclusione; dopo qualche tempo sarà radiato dall’albo dei giornalisti (non traete da questa storia conclusioni affrettate però: il giornalista radiato, un tempo a libro paga dei servizi segreti, scrive ancora sui quotidiani ed è stato eletto deputato).
© 2011 Luca Bauccio
Tratto da Luca Bauccio, Primo, non diffamare, pp. 148, euro 12,50
Luca Bauccio, 42 anni, avvocato, opera a Milano e si occupa di diritto penale e di diritto dell’informazione. Ha la passione dei diritti umani e da sempre si dedica alla difesa delle minoranze. Ha rappresentato come parte civile la moglie di Abu Omar nel processo contro i suoi sequestratori e difende leader politici che in varie parti del mondo si oppongono ai tiranni.