La Cassazione: no a interventi su malati senza speranza

Cronaca
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Per i giudici, il medico viola il codice deontologico anche se il paziente ha dato il proprio consenso. Alla base della sentenza, la conferma della condanna per omicidio colposo nei confronti di tre chirurghi romani

Il chirurgo che opera un paziente affetto da patologie che non lasciano speranza di vita agisce in violazione del codice deontologico anche nel caso in cui sia stato il paziente stesso a dare il proprio consenso all'intervento.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione confermando la condanna di tre medici dell'ospedale San Giovanni di Roma che nel dicembre del 2001 avevano sottoposto a laparoscopia prima e laparotomia poi una 44enne, malata terminale per "plurime affezioni neoplastiche", causandole lesioni "non tempestivamente identificate", con conseguente emorragia letale.

Nel maggio di due anni fa era stata la Corte d'appello di Roma a confermare la sentenza emessa il 20 marzo 2008 dal Tribunale di Roma con la quale, concesse le attenuanti generiche, erano stati condannati rispettivamente a dodici, dieci e otto mesi di reclusione Cristiano H., Carmine N. e Andrea M., primario chirurgo il primo, suoi "aiuti" gli altri due.
Omicidio colposo il reato contestato e ora prescritto essendo trascorsi più di nove anni.
"Il prioritario profilo di colpa in cui versavano gli imputati - scrivono i giudici di piazza Cavour nella sentenza numero 13476 - è stato evidenziato dalla stessa Corte (d'appello, ndr) nella violazione delle regole di prudenza, applicabili nella fattispecie, nonché delle disposizioni dettate dalla scienza e dalla coscienza dell'operatore".

Nel caso concreto, "attese le condizioni indiscusse ed indiscutibili della paziente (affetta da neoplasia pancreatica con diffusione generalizzata, alla quale restavano pochi mesi di vita e come tale da ritenersi 'inoperabile') non era possibile fondatamente attendersi dall'intervento (pur eseguito in presenza di consenso informato della donna, madre di due bambine e dunque disposta a tutto pur di ottenere un sia pur breve prolungamento della vita) un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita".
I chirurghi, pertanto, "avevano agito in dispregio al codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico-terapeutico".
I giudici di secondo grado avevano ravvisato la sussistenza del nesso di causa "nell'omessa, tempestiva identificazione delle lesioni" causa dell'emorragia, "avuto riguardo anche alle condizioni cliniche della paziente (rese manifeste dalla diagnosi di plurime affezioni neoplastiche formulate anche da un chirurgo ricercatore straniero che si occupava di cancro del pancreas) già note prima dell'intervento e soprattutto dei valori ematici nonché della sintomatologia di anemizzazione che la stessa aveva presentato nel decorso post-operatorio".

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