“Mio fratello: un uomo come tanti lasciato morire in cella”

Cronaca
Simone La Penna, morto un anno fa nel carcere di Regina Coeli
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La sorella di Simone La Penna, il 32enne deceduto a Regina Coeli il 26 novembre scorso: “In due mesi aveva perso 18 chili. Aveva bisogno di cure ma riceveva solo psicofarmaci”. Per la Procura di Roma, che ha aperto un'inchiesta, non è un nuovo caso Cucchi

di Chiara Ribichini

“Mi imbottiscono di Tavor così mi addormento e non mi sveglio più”. Lo aveva scritto in una lettera Simone La Penna, il 32enne morto il 26 novembre scorso nel carcere di Regina Coeli dove stava scontando una pena di due anni e quattro mesi per detenzione di sostanze stupefacenti. Una frase messa nero su bianco che oggi rimbomba nella mente della sorella Martina: “Non c’è un momento in cui non penso a quelle parole. E’ andata proprio così. E’ morto nel sonno intorno alle 4:30 di quella mattina”. Simone soffriva di anoressia. Una malattia che, sottolinea la famiglia, era esplosa in cella. Stava male e chiedeva di essere curato. Per la Procura di Roma, che sul caso ha aperto un’inchiesta, i sei medici e l’infermiera della struttura sanitaria interna al carcere, accusati di omicidio colposo, non avrebbero segnalato lo stato di salute grave del ragazzo. Simone non sarebbe stato picchiato in cella come Stefano Cucchi, ma la sua è un'altra morte a Regina Coeli che nasconde tanti dubbi e punti interrogativi.  

“Non è stato un suicidio ma una forma di depressione gravissima che non è stata né rilevata né curata” denuncia Martina. “Simone aveva chiesto aiuto anche al garante dei detenuti ma nessuno se ne è mai occupato”. E ripete: “Aveva bisogno di cure, stava male, ma riceveva solo psicofarmaci. Pensavamo che nel carcere di Regina Coeli fosse al sicuro perché lì c’è una struttura sanitaria interna. E invece…”. Nelle lettere che Simone scriveva a sua sorella, “si lamentava sempre di non essere curato. Chiedeva di fare colloqui con gli psicologi ma gli erano concessi solo quei 10 minuti al mese che spettano a ogni detenuto”. In cella Simone soffriva per la mancanza della figlia, che a dicembre compirà tre anni. “La lontananza dalla piccola lo ha catapultato in uno stato depressivo. A casa non ha mai avuto disturbi alimentari. "Tutto è iniziato in cella. Nel giro di due mesi aveva perso 18 chili”. Per i medici, però, Simone era compatibile con il regime carcerario. “Per loro faceva finta di stare male perché voleva uscire prima. Anche l’ultima settimana si era sentito molto male e aveva chiesto aiuto. Un aiuto che non è mai arrivato”.

Martina, che a 27 anni porta avanti a nome della sua famiglia la battaglia per far luce sulla morte di Simone, in un primo momento ricostruisce tutto con un certo distacco. Poi, in pochi minuti “il ragazzo” diventa “mio fratello” e le sue parole si trasformano in uno sfogo senza filtri. Fatti, sensazioni, ricordi, dubbi con un unico solo obiettivo: verità e giustizia. “Non voglio un risarcimento. Non me ne faccio niente. Mio fratello non potrà mai ridarmelo nessuno. Voglio solo che altre famiglie non vivano il nostro dolore. In carcere muoiono tanti ragazzi. E’ un mattatoio. E quello che è accaduto a noi può succedere a tutti. Perché la gente comune finisce in prigione”. Poi, difende il fratello: “Simone fumava le canne e, un paio di volte al mese, faceva uso di cocaina. Come tutti i ragazzi di oggi". Una generalizzazione che, forse, può sembrare eccessiva. Resta il fatto che Simone era un ragazzo come tanti. "Lo hanno descritto come un grande spacciatore. Ma non è così. Viveva in affitto e non aveva neanche la macchina perché non poteva permettersela”.

Dall'autopsia risulta che Simone ha avuto "un arresto cardiaco provocato da squilibrio elettrolitico". Quel giorno, il 26 novembre, Martina era andata a trovarlo in carcere. “Sono arrivata intorno alle 10 e mi hanno detto che mio fratello era morto. Simone è deceduto intorno alle 4:30. Se ne sono accorti alle 8, quando hanno fatto la conta delle celle”. E ripete: “E’ stata una fortuna essere lì. Altrimenti avrebbero fatto come nel caso di Stefano Cucchi: avrebbero portato via il corpo e fatto l’autopsia senza nessuno di noi. Invece così all’esame autoptico ha assistito un nostro perito di parte. Visto che ce l’hanno ucciso così almeno non gli ho permesso di infangarlo”.

Da quel giorno per la famiglia La Penna è iniziato un calvario alla ricerca della verità. Una strada tortuosa già percorsa da Ilaria Cucchi, che Martina sente spesso. “Ogni caso è a sé. E’ vero, come la Procura sottolinea, che a differenza di Stefano Simone non è stato picchiato. Ma i soprusi non sono solo fisici”.
Tanti i silenzi ricevuti dalla famiglia La Penna. “Io e mio padre abbiamo scritto anche al ministro Alfano. Non ci ha mai risposto”. Tanti i dubbi e gli ostacoli incontrati. “Ho ricevuto minacce e insulti. E non solo sulla pagina di Facebook aperta proprio alla ricerca della verità. Anche le guardie carcerarie hanno cercato di intimorirmi: mi hanno detto che devo chiudere il becco. Ma io oggi non ho più paura”.

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