Vajont, una catastrofe non naturale
CronacaLa storia di un evento che non ha nulla a che vedere con la furia della natura. Dagli ambiziosi progetti della Sade, alle vane denunce di Tina Merlin: così la diga più alta del mondo è diventata assassina
di Marcello Barisione
DIGA FUNESTA,
PER NEGLIGENZA E SETE D'ORO ALTRUI PERSI LA VITA,
CHE INSEPOLTA RESTA
(Lapide presso la diga in memoria di uno dei dispersi del Vajont)
Un torrente per la rivoluzione industriale - Una valle alpina, ce ne sono tante come questa. Fino al 1928 come tante altre, con pascoli soleggiati su un versante e un zoccolo duro di terra dall’altra dove sorgono due paesi: Erto e Casso. Famosi adesso, sconosciuti allora. Come Longarone, il centro più importante della zona, situato oltre il torrente Vajont, nella piana del Piave. Paesi sconosciuti, ma non a tutti: in quegli anni geologi e ingegneri girano l’Italia alla ricerca di nuove fonti di energia, vengono progettati i primi bacini idroelettrici per soddisfare il fabbisogno energetico delle industrie nazionali. La SADE, Società Adriatica Di Elettricità, invia nella zona il geologo Carlo Dal Piaz e l’ingegnere Carlo Semenza con lo scopo di individuare una localizzazione adatta ad ospitare un bacino di grandi dimensioni. La zona sembra ideale, il geologo e l’ingegnere consegnano una relazione ma solo nel 1943, in piena guerra civile, il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici approva il progetto di costruzione della diga nonostante manchi il numero legale. A Erto, Casso e Longarone la vita continua tranquilla fino al 1957, giorno in cui la SADE comincia i lavori di scavo e di consolidamento delle pareti che dovranno ospitare la diga.
La diga più alta del mondo - Cominciano anche gli espropri e il progetto si ingrandisce. Per aumentare la produttività dell’impianto, che nel frattempo è diventato vitale per lo sviluppo industriale di tutto il nord-est, si decide di accrescere la portata del bacino alzando quindi ulteriormente il livello della diga. Semenza disegna la variante, la diga che ne risulta sarà delle più grandi e possenti del mondo, l'orgoglio e il primato dell'ingegneria italiana. Lo stesso progetto però fa “tremare le vene e i polsi” al geologo Dal Piaz. Il luminare, ormai anziano, non è l’unico ad avere dubbi sulla maestosità dell’opera. E' la piana dei pascoli a preoccupare, quella che sta sotto il monte Toc, chiamato cosi proprio per i pezzi di sasso che si staccano dalla montagna sin da quando la valle è abitata. Viene nominata una commissione di geologi: ne fa parte anche l’austriaco Leopold Muller, un geotecnico che comincia una serie di carotaggi lungo tutta la zona del Toc. In soli due anni la diga viene costruita, si tratta dello sbarramento a doppia curvatura più alto del mondo. La sua capacità? Quella di trasferire alla montagna tutte le forze agenti su di lei. Per questo è cosi stretta e così alta, ben 261.50 metri.
Ma non c’è il tempo di festeggiare la prima prova di invaso del bacino che, a soli dieci chilometri dal Vajont, una frana di grandi dimensioni si verifica all’impianto di Pontesei, di proprietà della SADE. Le caratteristiche morfologiche del terreno e la localizzazione della diga sono molto simili, per quanto in piccolo, all’impianto del Vajont. Nell’incidente muore un dipendente SADE, travolto dalle acque che rischiano di debordare dal bacino.
Il geologo Muller si definisce molto preoccupato per le condizioni del monte Toc. Quello che per Dal Piaz era “sfasciume superficiale”, per l'esperto austriaco è una vera e propria frana di grandi dimensioni. Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga, viene incaricato di svolgere ulteriori indagini. Poco tempo dopo sull’Unità esce un articolo di Tina Merlin intitolato “La SADE spadroneggia ma i montanari si difendono”. La giornalista viene denunciata dai carabinieri di Erto per aver diffuso notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico. In concomitanza della prima prova di invaso una frana di modeste dimensioni si stacca dal monte Toc. Non ci sono feriti ma è la prova che il versante del lago non è stabile. In giugno infatti la relazione di Semenza conferma l’analisi di Muller e aggiunge che “c’è il rischio che l’acqua dell’invaso possa rimettere in movimento un'antica frana di grandi dimensioni.
La relazione di Semenza alla SADE non sarà mai inviata agli organi di controllo. Il 4 novembre sul monte Toc appare una fessura a forma di M a quota 2500 m. E’ l’esatto profilo della frana che cadrà 3 anni dopo.
Denuncia vana - Tina Merlin viene prosciolta dalle accuse, ma nel 1961 esce ancora sull' Unità un articolo di Tina Merlin intitolato "Una frana di 50 milioni di metri cubi minaccia vita e averi degli abitanti di Casso". La SADE fa costruire dai suoi tecnici un modellino idraulico per effettuare delle prove che prevedano le conseguenze della caduta di una frana dal Toc, cosa ormai ritenuta da tutti possibile. Il Vajont con il passare del tempo diviene affare non più locale. Anche la provincia di Belluno è interessata a scoprire quanto possibile sul pericolo Vajont: potrebbe minacciare anche l’abitato di Longarone, situato tre chilometri più a valle. Da Borso, presidente della provincia di Belluno, si reca a Roma per chiedere chiarimenti su quanto sta accadendo al Vajont, ne torna dichiarando che è difficile lottare contro la SADE che è come "uno Stato nello Stato". Nel 1962, con la nazionalizzazione dell'energia elettrica, la SADE deve vendere l'impianto all’ENEL. Invece di aspettare le indagini dei geologi si intensificano le operazioni di collaudo. Le prove del modellino idraulico suggeriscono di non oltrepassare quota 690 metri nelle prove di invaso. Il modellino riporta che, in caso di caduta di una frana di 50 milioni di metri cubi, con il livello dell’acqua ad una quota maggiore di 690 metri sarebbe possibile lo scavalcamento della diga da parte di un'onda di grandi dimensioni che potrebbe mettere a rischio la valle sottostante dove sorge Longarone. Anche questa relazione non viene resa pubblica.
Di corsa verso la morte - Nel 1963 la diga passa dalla SADE all'ENEL. Si decide di mantenere la struttura organica del personale precedente. Il controllore e il controllato diventano parte dello stesso organismo. In settembre, su ordine dell’Ingegner Biadene, subentrato due anni prima alla direzione lavori, l'acqua raggiunge la quota di 710 metri. Da Erto e Casso si nota l'accentuarsi della lunga fessurazione a forma di M che attraversa la montagna. Nel mese di ottobre si susseguono scosse sismiche e spostamenti visibili del fronte di frana.
E' il 9 ottobre 1963. I movimenti della frana aumentano con il passare delle ore. Dai punti di osservazione della diga si vedono le fessure del terreno che fanno pensare al peggio. Biadene dà l’ordine di portare l’invaso a quota 690 metri, ricorda quella quota come quota di sicurezza in caso di distacco della frana. Il livello del serbatoio però può calare solo di un metro al giorno. Nella notte, intorno alle 22, una centralinista di Longarone per caso intercetta una concitata comunicazione tra Biadene e un geometra di guardia sul coronamento. La centralinista si intromette nella telefonata e chiede se ci sia pericolo per il paese. Biadene la tranquillizza. "Tutto sotto controllo" le dice…
Ore 22.39 - " La frana si stacca". Non in due tempi come aveva ipotizzato Muller, bensì come un corpo unico, compatto. Nemmeno le dimesnioni sono esatte: non 50 milioni, ma ben 260 milioni di metri cubi di roccia si staccano dal monte Toc. Il livello dell'acqua è a quota 700.42 metri. La frana provoca un'onda di oltre 50 metri di altezza che si divide in due direzioni. Investe da una parte i villaggi di Frassen, San Martino, Col di Spesse, Patata, Il Cristo. Quindi arriva ai bordi di Casso e Pineda. Dall'altra parte, supera la diga, sovrastandola di ben 100 metri. Raggiunge dopo 3 minuti Longarone, distante tre chilometri, e gli abitati di Codissago, Castellavazzo, Villa Nuova, Pirago, Faè, Rivalta, per poi defluire lungo il Piave. L'onda provoca 1917 morti: 1450 a Longarone, 109 a Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 persone originarie di altri comuni, di cui la maggior parte lavoratori tecnici della diga con le rispettive famiglie. Pochissimi sono i feriti.
In tutta la zona l'unica opera umana che resiste all'onda è la diga progettata da Carlo Semenza sul torrente Vajont.
DIGA FUNESTA,
PER NEGLIGENZA E SETE D'ORO ALTRUI PERSI LA VITA,
CHE INSEPOLTA RESTA
(Lapide presso la diga in memoria di uno dei dispersi del Vajont)
Un torrente per la rivoluzione industriale - Una valle alpina, ce ne sono tante come questa. Fino al 1928 come tante altre, con pascoli soleggiati su un versante e un zoccolo duro di terra dall’altra dove sorgono due paesi: Erto e Casso. Famosi adesso, sconosciuti allora. Come Longarone, il centro più importante della zona, situato oltre il torrente Vajont, nella piana del Piave. Paesi sconosciuti, ma non a tutti: in quegli anni geologi e ingegneri girano l’Italia alla ricerca di nuove fonti di energia, vengono progettati i primi bacini idroelettrici per soddisfare il fabbisogno energetico delle industrie nazionali. La SADE, Società Adriatica Di Elettricità, invia nella zona il geologo Carlo Dal Piaz e l’ingegnere Carlo Semenza con lo scopo di individuare una localizzazione adatta ad ospitare un bacino di grandi dimensioni. La zona sembra ideale, il geologo e l’ingegnere consegnano una relazione ma solo nel 1943, in piena guerra civile, il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici approva il progetto di costruzione della diga nonostante manchi il numero legale. A Erto, Casso e Longarone la vita continua tranquilla fino al 1957, giorno in cui la SADE comincia i lavori di scavo e di consolidamento delle pareti che dovranno ospitare la diga.
La diga più alta del mondo - Cominciano anche gli espropri e il progetto si ingrandisce. Per aumentare la produttività dell’impianto, che nel frattempo è diventato vitale per lo sviluppo industriale di tutto il nord-est, si decide di accrescere la portata del bacino alzando quindi ulteriormente il livello della diga. Semenza disegna la variante, la diga che ne risulta sarà delle più grandi e possenti del mondo, l'orgoglio e il primato dell'ingegneria italiana. Lo stesso progetto però fa “tremare le vene e i polsi” al geologo Dal Piaz. Il luminare, ormai anziano, non è l’unico ad avere dubbi sulla maestosità dell’opera. E' la piana dei pascoli a preoccupare, quella che sta sotto il monte Toc, chiamato cosi proprio per i pezzi di sasso che si staccano dalla montagna sin da quando la valle è abitata. Viene nominata una commissione di geologi: ne fa parte anche l’austriaco Leopold Muller, un geotecnico che comincia una serie di carotaggi lungo tutta la zona del Toc. In soli due anni la diga viene costruita, si tratta dello sbarramento a doppia curvatura più alto del mondo. La sua capacità? Quella di trasferire alla montagna tutte le forze agenti su di lei. Per questo è cosi stretta e così alta, ben 261.50 metri.
Ma non c’è il tempo di festeggiare la prima prova di invaso del bacino che, a soli dieci chilometri dal Vajont, una frana di grandi dimensioni si verifica all’impianto di Pontesei, di proprietà della SADE. Le caratteristiche morfologiche del terreno e la localizzazione della diga sono molto simili, per quanto in piccolo, all’impianto del Vajont. Nell’incidente muore un dipendente SADE, travolto dalle acque che rischiano di debordare dal bacino.
Il geologo Muller si definisce molto preoccupato per le condizioni del monte Toc. Quello che per Dal Piaz era “sfasciume superficiale”, per l'esperto austriaco è una vera e propria frana di grandi dimensioni. Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga, viene incaricato di svolgere ulteriori indagini. Poco tempo dopo sull’Unità esce un articolo di Tina Merlin intitolato “La SADE spadroneggia ma i montanari si difendono”. La giornalista viene denunciata dai carabinieri di Erto per aver diffuso notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico. In concomitanza della prima prova di invaso una frana di modeste dimensioni si stacca dal monte Toc. Non ci sono feriti ma è la prova che il versante del lago non è stabile. In giugno infatti la relazione di Semenza conferma l’analisi di Muller e aggiunge che “c’è il rischio che l’acqua dell’invaso possa rimettere in movimento un'antica frana di grandi dimensioni.
La relazione di Semenza alla SADE non sarà mai inviata agli organi di controllo. Il 4 novembre sul monte Toc appare una fessura a forma di M a quota 2500 m. E’ l’esatto profilo della frana che cadrà 3 anni dopo.
Denuncia vana - Tina Merlin viene prosciolta dalle accuse, ma nel 1961 esce ancora sull' Unità un articolo di Tina Merlin intitolato "Una frana di 50 milioni di metri cubi minaccia vita e averi degli abitanti di Casso". La SADE fa costruire dai suoi tecnici un modellino idraulico per effettuare delle prove che prevedano le conseguenze della caduta di una frana dal Toc, cosa ormai ritenuta da tutti possibile. Il Vajont con il passare del tempo diviene affare non più locale. Anche la provincia di Belluno è interessata a scoprire quanto possibile sul pericolo Vajont: potrebbe minacciare anche l’abitato di Longarone, situato tre chilometri più a valle. Da Borso, presidente della provincia di Belluno, si reca a Roma per chiedere chiarimenti su quanto sta accadendo al Vajont, ne torna dichiarando che è difficile lottare contro la SADE che è come "uno Stato nello Stato". Nel 1962, con la nazionalizzazione dell'energia elettrica, la SADE deve vendere l'impianto all’ENEL. Invece di aspettare le indagini dei geologi si intensificano le operazioni di collaudo. Le prove del modellino idraulico suggeriscono di non oltrepassare quota 690 metri nelle prove di invaso. Il modellino riporta che, in caso di caduta di una frana di 50 milioni di metri cubi, con il livello dell’acqua ad una quota maggiore di 690 metri sarebbe possibile lo scavalcamento della diga da parte di un'onda di grandi dimensioni che potrebbe mettere a rischio la valle sottostante dove sorge Longarone. Anche questa relazione non viene resa pubblica.
Di corsa verso la morte - Nel 1963 la diga passa dalla SADE all'ENEL. Si decide di mantenere la struttura organica del personale precedente. Il controllore e il controllato diventano parte dello stesso organismo. In settembre, su ordine dell’Ingegner Biadene, subentrato due anni prima alla direzione lavori, l'acqua raggiunge la quota di 710 metri. Da Erto e Casso si nota l'accentuarsi della lunga fessurazione a forma di M che attraversa la montagna. Nel mese di ottobre si susseguono scosse sismiche e spostamenti visibili del fronte di frana.
E' il 9 ottobre 1963. I movimenti della frana aumentano con il passare delle ore. Dai punti di osservazione della diga si vedono le fessure del terreno che fanno pensare al peggio. Biadene dà l’ordine di portare l’invaso a quota 690 metri, ricorda quella quota come quota di sicurezza in caso di distacco della frana. Il livello del serbatoio però può calare solo di un metro al giorno. Nella notte, intorno alle 22, una centralinista di Longarone per caso intercetta una concitata comunicazione tra Biadene e un geometra di guardia sul coronamento. La centralinista si intromette nella telefonata e chiede se ci sia pericolo per il paese. Biadene la tranquillizza. "Tutto sotto controllo" le dice…
Ore 22.39 - " La frana si stacca". Non in due tempi come aveva ipotizzato Muller, bensì come un corpo unico, compatto. Nemmeno le dimesnioni sono esatte: non 50 milioni, ma ben 260 milioni di metri cubi di roccia si staccano dal monte Toc. Il livello dell'acqua è a quota 700.42 metri. La frana provoca un'onda di oltre 50 metri di altezza che si divide in due direzioni. Investe da una parte i villaggi di Frassen, San Martino, Col di Spesse, Patata, Il Cristo. Quindi arriva ai bordi di Casso e Pineda. Dall'altra parte, supera la diga, sovrastandola di ben 100 metri. Raggiunge dopo 3 minuti Longarone, distante tre chilometri, e gli abitati di Codissago, Castellavazzo, Villa Nuova, Pirago, Faè, Rivalta, per poi defluire lungo il Piave. L'onda provoca 1917 morti: 1450 a Longarone, 109 a Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 persone originarie di altri comuni, di cui la maggior parte lavoratori tecnici della diga con le rispettive famiglie. Pochissimi sono i feriti.
In tutta la zona l'unica opera umana che resiste all'onda è la diga progettata da Carlo Semenza sul torrente Vajont.