Tubiana: “La lotta alla crisi climatica senza gli Usa è possibile”

“Dieci anni sono pochissimi per trasformare un’economia basata sui combustibili fossili in qualcosa di completamente nuovo, per di più su scala globale. Però i progressi ci sono, anche se non sono così rapidi come dovrebbero”. Dieci anni sono quelli passati dall’approvazione dell’Accordo di Parigi, il pilastro della lotta alla crisi climatica. Di questo pilastro Laurence Tubiana è stata l’architetta. Economista, professoressa a Science Po, un anno fa è stata proposta come possibile primo ministro francese. Oggi è a capo della European Climate Foundation e inviata speciale dell’Europa per il clima. La incontriamo a Belém dove è in corso la Cop30, per fare un bilancio dei dieci anni da Parigi. Partendo però da quello che sta accadendo in Brasile. Possiamo misurare il successo della Cop30 dall’eventuale roadmap per l’uscita dai combustibili fossili contenuta nel testo finale? “Questa Cop deve affrontare molte questioni, non solo quella della riduzione delle emissioni. Sappiamo che dobbiamo accelerare l’attuazione dell’Accordo di Parigi, che funziona ma non abbastanza rapidamente. Come ha detto Lula, dobbiamo ridurre la nostra pesante dipendenza dai combustibili fossili. Uno dei successi sarebbe capire come farlo insieme e in quale forma”. Gli ultimi NDC, gli impegni climatici dei vari Paesi, mostrano un divario tra ciò che si promette di fare e gli obiettivi da raggiungere secondo l’Accordo di Parigi. Come si fa a colmare questo divario? “Abbiamo molte opzioni: triplicare gli investimenti nelle rinnovabili e la loro capacità, raddoppiare l’efficienza energetica. Il punto è ridurre la pressione del settore dei combustibili fossili, che non vuole questo cambiamento. Dobbiamo eliminare l’enorme quantità di sussidi che finiscono a quel settore. Fanno profitti enormi e, oltre a questo, ricevono sussidi diretti o indiretti. Secondo il Fondo Monetario Internazionale i sussidi complessivi hanno raggiunto i 7 trilioni l’anno scorso. Bisogna riequilibrare la competizione tra energia fossile e pulita, perché oggi non è affatto equa. C’è una forte attività di lobbying per impedire cambiamenti di policy. Insomma, sappiamo cosa fare: manca la volontà politica”. A proposito di politica, come si fa a portare il Clima in cima all’agenda? “Perché il Clima è scivolato in fondo all’agenda politica? Soprattutto perché dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia abbiamo assistito al settore del petrolio e del gas fare finta di essere l’unica soluzione al problema della sicurezza energetica. Questa ansia è stata sentita in maniera molto forte dai governi. Che hanno dato a questo settore uno spazio enorme che prima non avevano. Adesso è tempo di riprendersi questo spazio. Quello che mi colpisce è che chi governa non ascolta i cittadini. Non prendono neanche le misure necessarie per proteggerli dalle alluvioni. Le persone stanno morendo. Ovunque. Spero che si rendano conto che i costi per l’economia e per la società sono sempre più grandi”. L’Accordo di Parigi è ancora lo strumento più adatto o dobbiamo pensare a qualcosa di nuovo? “Penso chiaramente di no. La forza dell’Accordo sta nel fatto che tutti i Paesi vi restano legati e tutti riconoscono che ha fatto un’enorme differenza nelle loro economie. Basta guardare i dati dell’IEA sulla crescita dell’elettricità rinnovabile e sulle economie di scala. Nessun Paese oggi è senza un’azione climatica: sono tutti dentro Parigi. Quando abbiamo iniziato, la maggior parte dei Paesi non aveva nemmeno una legge sul clima”. Ma si può fare la transizione senza gli Stati Uniti che per la seconda volta hanno lasciato l’Accordo? “Sì, in particolare perché la Cina dieci anni fa ha deciso di andare avanti e ora ci sono Paesi che stanno puntando sull’elettricità e sulla sua espansione. Negli Usa persino il Texas, una colonna del settore petrolifero statunitense, oggi è il primo esportatore di energia pulita degli Stati Uniti grazie all’eolico. E continuano a investire, anche senza gli incentivi voluti da Biden. La tendenza è chiara: tornare a un passato che non esiste più è conservatorismo economico e sociale. Purtroppo significa anche un arretramento democratico. È questa la visione del futuro? Non credo. È un problema per gli Stati Uniti, non per il resto del mondo, che non sembra seguirli”. E l’Europa? Si ritrova in una sorta di terra di mezzo, tra il disimpegno degli Usa e il ruolo dominante della Cina. Non rischia di diventare ininfluente? “In Europa abbiamo una grande sfida, perché l’alleanza con gli Stati Uniti di fatto non esiste più. Non abbiamo più un alleato. Anzi, a volte gli Usa presentano l’Europa come il nemico che ostacola il progresso con troppa regolamentazione: sono attacchi diretti. Allo stesso tempo, l’Europa ha bisogno di alleati e la nostra transizione dipende molto dalla Cina, perché molti materiali critici che compriamo — per esempio in America Latina — vengono trasformati in Cina. Dobbiamo gestire il rapporto con Pechino in modo pragmatico. Abbiamo bisogno delle loro tecnologie, così come vent’anni fa loro avevano bisogno delle nostre. Occorre riconoscere che hanno investito più di noi e che noi dipendiamo da loro, ma serve equilibrio e gestione. E dobbiamo diversificare, come fanno oggi tutti i Paesi: con l’America Latina, con l’Asia. L’Europa deve fare lo stesso. Non esiste più un solo mondo: ne esistono molti, diversi”. È credibile immaginare non più una sola grande Cop ma tante conferenze dedicate a vari temi? “Dobbiamo andare molto più in profondità sull’attuazione, e la Cop non è necessariamente il luogo giusto. Direi due cose: bisogna aumentare il coinvolgimento e le partnership su settori specifici — energia, edilizia, agricoltura, cibo — perché non tutto può essere discusso qui; qui si portano i risultati. E poi, i summit regionali stanno diventando molto importanti, come quello che recentemente si è tenuto ad Addis Abeba: le regioni devono parlarsi e capire cosa possono fare insieme. In quei contesti partecipano molte più componenti della società: imprese, banche, istituzioni finanziarie, società civile. Ogni regione deve definire il proprio percorso di sviluppo”. Se potesse tornare indietro nel tempo, cosa cambierebbe dell’Accordo di Parigi? “Avrei voluto integrare molto di più le autorità locali — Stati, regioni e città — nella definizione delle azioni, con impegni e responsabilità, perché hanno obiettivi molto ambiziosi. Avrei voluto avere al tavolo entità come la provincia di Shanghai o la California come veri governi. Credo che forse in futuro si andrà in quella direzione. E poi serve il settore privato che si impegni davvero a ridurre le emissioni. Serve una governance più aperta, più settoriale. E ora servono i cittadini, perché non credo che i governi da soli faranno il lavoro”.

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Alberto Giuffrè