Cop30, il vertice prima dell'ora della verità

Tutti a parlare del decennale dell’Accordo di Parigi, ma a dire il vero sarebbe bene tenere gli occhi sulla palla: la COP30 si presenta come il vertice della verifica e della credibilità. Sotto la presidenza brasiliana, la conferenza ha il dovere di rispondere a due domande decisive: come colmare il divario tra le ambizioni dichiarate nei piani nazionali per il clima e la realtà delle emissioni, e come ricostruire la fiducia nella finanza climatica internazionale, dopo anni di promesse mancate e ritardi nei versamenti. La “COP dell’attuazione”, come l’ha definita il governo brasiliano, si propone di spostare il baricentro dalla diplomazia delle dichiarazioni a quella dei risultati. Prima dell’apertura ufficiale, Rio de Janeiro e San Paolo hanno ospitato rispettivamente il Forum dei leader locali e il Business & Finance Forum, a testimonianza della volontà di coinvolgere amministrazioni e capitali privati nel processo di transizione. L’obiettivo politico più ambizioso di Belém è dare concretezza alla “transizione giusta” evocata a Dubai nel 2023. La sfida, questa volta, è trasformare il principio in una road map operativa che tenga insieme equità, diritti umani e sviluppo. Il rischio, tuttavia, è che l’enfasi sulla giustizia climatica si traduca in un nuovo terreno di scontro tra Nord e Sud del mondo: da un lato i Paesi industrializzati, sotto pressione per accelerare l’abbandono dei combustibili fossili; dall’altro le economie emergenti, che chiedono risorse e flessibilità per non pagare il prezzo sociale della decarbonizzazione. Il Brasile punta a fare delle foreste tropicali la bandiera della propria presidenza. Con il Tropical Forest Forever Facility , un fondo decennale da 125 miliardi di dollari, il governo Lula tenta di coniugare conservazione e finanza. L’idea è trasformare la tutela delle foreste in un investimento remunerativo, ancorato a risultati verificabili. Ma la credibilità dell’iniziativa dipenderà da tre fattori politici cruciali: la trasparenza nella gestione, il coinvolgimento delle popolazioni indigene e la reale capacità di attrarre capitali privati. Senza questi elementi, anche il TFFF rischia di restare un esercizio di diplomazia simbolica più che un cambio di paradigma. La finanza è il nervo scoperto della governance climatica globale. Dopo la promessa della COP29 di mobilitare 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035, Belém dovrà approvare la “Roadmap Baku-Belém”, che punta a raggiungere 1.300 miliardi l’anno entro il 2030. La posta in gioco non è solo economica ma politica: i Paesi in via di sviluppo chiedono fondi a fondo perduto, non prestiti che aggravino il debito. I donatori, invece, cercano garanzie di efficienza e accountability. Senza un compromesso su questi due fronti, la COP rischia di ripetere il copione di vertici passati, tra annunci solenni e risultati evanescenti. Sempre più spesso, l’adattamento al cambiamento climatico viene descritto come un’opportunità economica. Secondo le stime, il mercato globale della resilienza potrebbe toccare i 1.300 miliardi di dollari entro il 2030. Ma il vero nodo politico è un altro: come garantire accesso equo ai finanziamenti, in particolare per gli Stati più vulnerabili. Belém dovrà definire obiettivi chiari per l’Obiettivo Globale sull’Adattamento e stabilire un meccanismo stabile di finanziamento dei fondi per le perdite e i danni. L’equilibrio fra solidarietà e sostenibilità finanziaria sarà un banco di prova per la credibilità dell’intero processo multilaterale. Sul piano geopolitico, la COP30 si apre con un’Unione Europea che tenta di riaffermare la propria leadership morale e tecnica, nonostante tensioni interne e ritardi. Il nuovo NDC, che prevede una riduzione delle emissioni del 66,25%-72,5% entro il 2035 e del 90% entro il 2040, è un segnale apparentemente forte, ma non privo di ambiguità. L’UE resta comunque il principale contributore alla finanza climatica globale, con 31,7 miliardi di euro nel 2024. Una leadership che però rischia di apparire isolata, mentre gli Stati Uniti mantengono una presenza ambigua: apparentemente solo defilati su tutti i tavoli, rimangono attivi nel dietro le quinte, più per affossare che sostenere strumenti vincolanti come il prezzo del carbonio nel settore navale. In questo scenario, la COP30 riflette un mondo multipolare in cerca di un nuovo equilibrio: con la Cina silenziosamente concentrata sull’industria verde, l’India su una crescita “pulita ma sovrana” e il Brasile che, con abilità politica, tenta di collocarsi come mediatore tra Nord e Sud. Belém potrebbe passare alla storia come la conferenza della concretezza, o come l’ultimo tentativo prima di cambiare gioco e provare nuove strade e nuove formule. Dieci anni dopo Parigi, la comunità internazionale non può più permettersi il lusso dell’ambiguità: la credibilità della diplomazia climatica dipende dalla capacità di trasformare le promesse in risultati misurabili. La sfida non è ecologica, ma politica: ricostruire la fiducia in un sistema multilaterale in crisi e dimostrare che la cooperazione globale può ancora produrre soluzioni comuni in un mondo diviso.

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Daniele Moretti